Piuttosto che una rock band, i Velvet Underground sono stati uno stile di vita, un riferimento culturale che su un palco ha scritto un’epoca. Quelli di Heroin, di Sunday Morning, di Venus in Furs, di I’m waiting for the man, gli stessi che “rubarono” a un frigorifero la frequenza fondante della loro musica e che ai loro concerti tra il pubblico si ritrovavano Nureyev a ballare.
I Velvet Underground facevano parte di un complesso ecosistema sociale di artisti sperimentali operanti a New York negli anni Sessanta. Il nome della band era stato preso dal titolo di un libro di Michael Leigh che descrive il sottobosco sessuale underground americano dei primi anni Sessanta. Suonavano musica pop? Rock’n’roll? Proto-punk? Avanguardia? Nel documentario di Todd Haynes, presentato a Cannes 2021, un intervistato parla della coesistenza di R’n’B e Wagner. Fenomeno profondamente newyorchese in total black, la band non produceva musica hippy: come sottolinea il batterista Moe Tucker, odiavano gli hippy. Il loro era un rock rabbioso, conflittuale e snervante.
La band era nata dall’incontro tra Lou Reed, allora studente universitario, e John Cale, giovane musicista d’avanguardia ed allievo di La Monte Young. A loro si unirà, ma solo per l’album di debutto, la cantante Nico, il cui nome viene presentato separatamente dal resto della band. Eppure sarà lei «la persona che più di qualsiasi altro membro della band, da quando la band si è sciolta, ha davvero portato avanti il testimone di quello che furono i Velvet Underground», sottolinea Laurie Anderson, vedova Reed. La carriera da solista di Nico e le sue canzoni, il tipo di oscurità interiore che evocava e la bellezza oscura, erano caratteristiche dei Velvet Underground che lei ha portato in giro per anni prima di morire nel 1988 per una banale caduta dalla bicicletta.
E poi Andy Warhol, il “deus ex machina”, che virtualmente ha creato, o ricreato, i Velvet Underground come house band della Factory. Una presenza ingombrante, tanto da far sentire a Reed il bisogno di licenziarlo, così come doveva rompere il rapporto con il co-fondatore immensamente talentuoso della band, il musicista e violista di formazione classica John Cale, che sembrava un incrocio tra Syd Barrett e Glenn Gould e che oggi a 79 anni parla nel docu-film con grande gentilezza e tolleranza nei riguardi del suo defunto compagno.
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Todd Haynes, uno che con l’ambiente musicale (da Velvet Goldmine ai mille Dylan di Io non sono qui – I’m Not There) ha sempre avuto un feeling particolare, anche in questo caso non si smentisce. Il suo film (dal 15 ottobre su Apple TV+) è un collage di immagini di oggetti trovati tematicamente rilevanti, materiale d’archivio, interviste con membri della band e ammiratori sopravvissuti e, talvolta, con i ritratti statici di Warhol. The Velvet Underground è all’avanguardia nello stesso modo in cui lo era la band. Forte, spietato, fortemente stilizzato e incrollabilmente accattivante, il documentario e il suo soggetto trovano entrambi il loro successo nello spingere i confini di ciò che può essere fatto in un mezzo.
Proprio come Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker hanno giocato con i limiti del suono, creando nuove accordature e accordi per completare il lirismo poetico di Reed (e, come dice Cale nel documentario, per impressionare altre persone). È un grande documentario su persone che prendono sul serio la musica e l’arte, e cosa significa vivere come artista. Il regista evita di affondare la cinepresa nella vita privata dei membri della band e di approfondire le assurdità alla base dei litigi e delle separazioni, così come si rivela reticente sulla questione della sessualità di Lou Reed: «Ragazzi e ragazze, uomini e donne, tutti si innamorano di Lou», dice uno degli intervistati. Lou Reed è l’emblema del mito dei Velvet Underground, perché era un genio e perché la sua assenza nel film porta a una presenza ancora più grande.
Nel descrivere gli spettacoli dei Velvet Underground in cui i fan aspettavano in silenzio per cinque secondi alla fine della canzone di apertura, Jonathan Richman, un superfan e fondatore della rock band The Modern Lovers, racconta: «I Velvet Underground avevano la capacità di ipnotizzare il pubblico». Anche il documentario di Haynes, con la sua colonna sonora cacofonica ricavata dalla musica dei Velvet Underground, abbinata a immagini vibranti e astratte e sensibilità all’avanguardia, è ipnotizzante. E, soprattutto, fa riscoprire canzoni e dischi che continuano ancora a influenzare la storia della musica. Tant’è che la prestigiosa e autorevole rivista Rolling Stone ha inserito i Velvet Underground al numero 19 nella lista dei 100 migliori artisti di tutti i tempi.