Mentre il Paese è ancora scosso dallo stupro di gruppo di Palermo, una nuova storia dell’orrore arriva da Caivano, provincia di Napoli. Due cuginette, di appena 13 anni, sarebbero state violentate da un gruppo di adolescenti. Il fatto, come riferisce Il Mattino, è avvenuto a inizio dello scorso luglio. Le indagini hanno avuto inizio ad agosto quando i familiari delle vittime hanno presentato una denuncia ai carabinieri. Al momento si sa che l’unico maggiorenne del gruppo sarebbe già stato individuato e fermato.
Un agosto difficile per le donne in Italia. Ai casi di violenza si aggiunge il sessismo dei tribunali. In questi giorni sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza del Gup di Firenze, emessa il 28 marzo 2023, con la quale il giudice ha assolto due ragazzi accusati di stupro, ritenuti non punibili perché avrebbero commesso «un errore di percezione del consenso». Sono numerose le sentenze che contengono argomenti o spiegazioni considerate sessiste ed espressione di una concezione dei rapporti sessuali e di genere che è alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, cioè un sistema radicato nella società che minimizza, normalizza e a volte incoraggia le violenze contro le donne.
La sentenza del tribunale di Firenze è per certi versi esemplare di questo approccio che sottolinea precedenti episodi o atteggiamenti che riguardano la vittima ma che nulla hanno a che fare con la vicenda che i giudici sono chiamati a valutare. In questo caso infatti la sentenza riconosce che c’è stata una violenza sessuale, nel senso che effettivamente la vittima non era consenziente almeno da un certo momento in poi. Stabilisce però che i due imputati avevano «frainteso l’apparente disinvoltura di comportamento», e giustifica questo fraintendimento col fatto che la vittima «aveva “accettato” la presenza di “spettatori”» durante un rapporto sessuale che aveva avuto con uno dei due l’estate precedente.
Il fatto che la vittima avesse mostrato un anno prima di avere un rapporto con la sessualità disinibito, quindi, spiegherebbe il fraintendimento e la conseguente violenza, in un momento in cui peraltro la coscienza della donna era molto limitata dall’assunzione di alcol, condizione che semmai avrebbe dovuto indurre negli autori della violenza una maggiore attenzione alla sua espressione di consenso. L’articolo del codice penale sulla violenza sessuale, il 609 bis, dice infatti che la pena per questo tipo di reato vale anche per chi abusa «delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto».
La sentenza di Firenze è un esempio di un approccio molto diffuso che tende a giustificare le condotte maschili e colpevolizzare quelle femminili. Elena Biaggioni, avvocata penalista e vice presidente della rete dei centri anti-violenza Dire, commenta la decisione: «Il problema è soprattutto culturale. Giudici e operatori del diritto ragionano in termini di “violenza, minaccia, abuso di autorità”, continuando a interpretare la violenza sessuale come un’azione annunciata da gesti brutali. Per riconoscere la violenza è necessario emanciparsi da tale lettura. Indagare il consenso è un’operazione più complessa che rischia di introdurre elementi utili alla ricostruzione, che spesso si rivelano intrisi di pregiudizi e stereotipi sessisti. Si chiama cultura dello stupro e indica proprio questo: nella società, come nelle aule di tribunale, si attribuiscono significati impliciti ai comportamenti della vittima che vanno nella direzione di minimizzare la gravità del fatto e di fornire una giustificazione ai colpevoli».
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Nella sentenza di Firenze vengono elencati come elementi a favore dell’assoluzione il fatto che «la ragazza era in uno stato di alterazione più o meno accentuato e non appariva in grado di esprimere un valido consenso» e che «aveva avuto, nei mesi precedenti, dei rapporti sessuali con un imputato». «Entrambi questi elementi dovrebbero costituire delle aggravanti – continua Elena Biaggioni – Si dovrebbe protestare per il modo in cui vengono impostati questi processi. Essere ubriachi semmai può ostacolare la formazione del libero consenso quindi la logica sarebbe inversa. Se qualcuno entra in casa mia il giudice non si preoccupa di capire se ero ubriaca e se ho manifestato abbastanza dissenso ma si basa sul fatto che la persona è entrata senza un mio invito. Per lo stupro invece si parte dal presupposto che la donna sia costantemente disponibile al rapporto sessuale e che in caso contrario debba fornire le prove evidenti della sua contrarietà. Il fatto di aver avuto in precedenza un flirt con uno degli imputati invece mostra un pregiudizio ancora più duro da estirpare: quello per il quale la violenza sessuale è un reato commesso da estranei. Secondo i dati dell’Istat sono soprattutto persone conosciute dalla vittima, partner o ex partner, a commettere questo crimine».
Questa sentenza non è l’unica ad aver suscitato critiche. Nel 2021 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per una sentenza ritenuta discriminatoria su un caso di violenza sessuale. In quel caso la ragazza che aveva denunciato era stata definita «disinibita», specificando che indossava degli «slip rossi». Un altro esempio è la recente sentenza del Tribunale di Roma sul caso del collaboratore scolastico accusato di palpeggiamento. I due motivi principali alla base dell’assoluzione sono la breve durata del gesto e il fatto che sia avvenuto in pubblico.
Rispetto alla questione di come debba essere stabilita la presenza o meno di consenso nei casi di stupro è in corso da alcuni anni un denso dibattito. In Spagna per esempio l’anno scorso è stata approvata una legge, conosciuta come la “ley del solo sí es sí” (la legge per cui solo il sì è sì), che prevede che venga considerato stupro qualsiasi atto sessuale in cui una delle persone coinvolte non abbia dato il proprio consenso esplicito. In Italia una legge del genere è ritenuta da molti esperti non necessaria, dal momento che la Corte di Cassazione ha ribadito in più occasioni che il consenso deve essere esplicito (non necessariamente a parole, anche con comportamenti che lo implicano), e non si può mai presumere.
In Italia infatti gli articoli del codice penale e le leggi che regolano i procedimenti giudiziari nei casi di violenze sessuali ci sono, sono spesso aggiornati e recepiscono le più recenti direttive internazionali. La prima fra queste è la convenzione di Istanbul, il principale strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica, che l’Italia ha ratificato nel 2013. La convenzione di Istanbul riconosce tra le altre cose un diretto collegamento tra le violenze di genere e la cultura maschilista radicata nella società, presentando quest’ultimo come un dato oggettivo di cui i paesi che l’hanno ratificata non possono non tenere conto. Dice nello specifico che la violenza di genere «è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi», che ha «natura strutturale» ed è «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata».
Il problema della cultura sessista radicata nella società e che si riflette anche nel lavoro della magistratura va molto oltre i contenuti delle sentenze. Le leggi italiane e le convenzioni internazionali definiscono molto dettagliatamente tutta una serie di cautele, strumenti e procedure che dovrebbero essere impiegate per tutelare i diritti delle vittime di maltrattamenti e violenze di genere, e che non sempre vengono rispettate.