Continuo le mie incursioni nel mondo della pittura contemporanea italiana. È una mattina di sole, dopo la pioggia e l’alluvione di qualche settimana fa che ha colpito la Toscana. Sono a Firenze, da Ersilia Leonini. Mi accoglie con la sua voce pacata. Mi porta nel suo mondo fatto di colori e di arte, di meditazione e bellezza. Mi lascia libero di girare per la sua casa-studio.
Dalla finestra vedo il parco di Villa il Ventaglio: poi il mio sguardo si ferma sulla luce che cade su una sedia. Da lì si propaga fino alle sue opere, in cui il colore si materializza in corpi, in figure femminili (emblema sempre di altro, di un qualcosa di indefinibile) rappresentate con una straordinaria concretezza, con un realismo che non tralascia alcun particolare, che penetra come un bisturi anche nelle pieghe più nascoste e intime della carne.
Assaporo il piacere del silenzio. Sono io e queste figure. Sono presenze non ombre. Hanno una forte, fortissima fisicità, un’energia latente e altamente espressiva, incisa su delle tele ma che ha una sua voce. È chiara e netta. È di una melodia lenta, ben scandita, di movimenti precisi, di gesti fissati per sempre in un abbraccio su un divano, che lascia trasparire qualcosa di non detto, di spezzato, di interrotto, una sofferenza rimasta inespressa come un nodo in gola.
Mi lascio avvolgere dai loro sguardi pensosi. Poco a poco sento sulla mia pelle l’oscura traccia che la vita ha lasciato sui loro capelli, sui loro visi, sulle loro mani. Sono come cortecce d’alberi e pietre antiche: su di loro è scritta non non solo la loro storia ma anche quella di tutti noi. La loro nudità svela la nostra, un altrove che abbiamo perso e dimenticato, un presente ma anche un passato, un punto fermato per un attimo rispetto al continuo fluire del tempo, un doppio piano, una continua ambiguità: quella dell’apparire ma anche di ciò che si nasconde dentro di loro, l’oscura e indecifrabile interiorità che li anima.
Ascoltare la loro voce mi richiede silenzio interiore. Il senso dell’attesa. Lentezza. Capisco che non sono solo figure ma personaggi di un dramma unico, di una pièce che si compone di tanti atti, che assumono di volta in volta pose sempre nuove. Mutano ma conservano un’unicità oltre l’apparenza. La loro forma cangiante è solo il segno visibile del loro passaggio in questa vita, della sofferenza e delle prove che hanno attraversato. L’essenza è però imperscrutabile, non decifrabile. È lì in un oltre, in una dimensione imprecisata.
Intuisco che non sono io che fermo il mio sguardo su di loro; al contrario sono loro che nella molteplicità dei loro occhi si voltano verso di me, mostrandosi nell’atto di esistere, nella loro bellezza ferita dal tempo, con visi a volte taglienti, a volte spavaldi, fieri dei segni che il tempo ha lasciato su di loro, del loro essere donne. Non hanno nulla di voluttuoso o di edonistico. Sono estremamente concreti, reali, esseri androgini. Sono lì nella loro istantaneità, con le loro imperfezioni, come nella vita di ogni giorno, e con mute parole mi parlano nella loro magrezza o voluminosa pienezza.
È sempre la luce a guidarmi in questo viaggio. Dinanzi a me ora c’è una donna seduta a un tavolino. Evoca nella mia mente l’atmosfera di una piazza, o forse la solitudine di un giardino. O di una terrazza. Mi piace immaginare un affaccio sul mare. Sembra una scena statica ma in realtà è in movimento: è colta mentre piega leggermente il busto. Mi fissa con i suoi occhi azzurri. Mi pare di intuire in questo suo gesto la fuga da uno sguardo o le difficoltà del quotidiano, del suo essere donna nel tempo presente.
Penso che quest’opera sia un po’ l’emblema dell’arte di Ersilia Leonini, che non propone mai discorsi sulla vita e sull’esistenza, e che con umiltà si definisce un’artigiana. I suoi sono personaggi che nei loro corpi danno testimonianza di ciò che esiste e diviene allo stesso tempo, di qualcosa di eterno e assoluto. Sanno di dover passare, di non poter sfuggire al morso del divenire. Questa consapevolezza rende ogni loro atto altamente drammatico, dissacrante, ma anche volutamente ironico, perché sembra vogliano andare oltre tutto ciò che nella prosaicità del quotidiano è conformismo, finzione. Propongono con il loro esserci uno straordinario e terribile messaggio di verità, una dissoluzione dei canoni e una critica sottotraccia a qualunque stereotipo e alle convezioni sociali di una società benpensante e spesso incapace di cogliere l’essenza più profonda dell’esistenza.