L’Italia non è un Paese per donne, almeno se guardiamo al mondo del lavoro. I dati che riguardano l’occupazione, ci dicono che le donne che lavorano sono 9,5 milioni contro i 13 milioni di uomini. Un gap di genere frutto non di scelte libere e legittime, ma figlio di condizioni di un contetso sociale che ancora nel 2024 le discrimina.
Confcommercio e Ispettorato Nazionale del Lavoro lo confermano: i posti di lavoro per gli uomini crescono il doppio rispetto alle donne e l’Italia resta il fanalino di coda della Ue per il più basso tasso di occupazione delle donne, sottopagate e con impieghi, spesso precari, in settori non strategici.
Gli ultimi dati nazionali disponibili del 2022 dicono anche altro. Le dimissioni generali nel 2022 in Italia sono cresciute a 61.391 con un aumento del 17,1% rispetto al 2021, ma di queste quasi il 73% riguarda donne che denunciano difficoltà a gestire vita privata e impiego. La fotografia di chi si dimette guardata da vicino dà ulteriori informazioni: a lasciare sono per lo più donne con figli (1 su 5 è neomamma), il 63% di loro rinuncia al lavoro perché non trova equilibrio tra cura dei figli e professione, contro il 7,1% dei papà che si dimettono principalmente per cambiare azienda e avanzare di carriera. Sono quasi 45.000 le donne che hanno lasciato il lavoro dopo la maternità con un incremento del 19% rispetto all’anno precedente a causa della mancanza di servizi di supporto territoriali per la prima infanzia.
Molte delle politiche previste dall’attuale governo sono mirate a promuovere l’equilibrio tra famiglia e lavoro e a incrementare la fecondità, almeno in base agli annunci. Forse proprio con l’intenzione di aumentare il numero di figli per donna, la legge di bilancio 2024 ha introdotto il cosiddetto “Bonus mamme”, cioè l’esonero della contribuzione previdenziale, fino a un massimo di 3 mila euro annui, per le lavoratrici con almeno tre figli, e, in via sperimentale per il solo 2024, per le lavoratrici con almeno due figli, di cui il più piccolo di età inferiore ai 10 anni e fino al compimento della suddetta età. L’agevolazione è però rivolta soltanto alle dipendenti del settore pubblico e privato con contratto a tempo indeterminato, escludendo quindi le lavoratrici con un contratto a tempo determinato. La scelta, di cui non si comprende la ragione se non per questioni di budget, porta a uno svantaggio proprio per quelle donne che dal punto di vista lavorativo si trovano già in una situazione di maggiore incertezza.
L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto tasso di contratti a tempo determinato, soprattutto tra i lavoratori giovani: secondo i dati Eurostat, nel 2022 oltre il 28 per cento dei lavoratori di età compresa tra i 25 e 34 anni aveva un contratto a termine, 10 punti percentuali in più della media europea e oltre 11 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione. In questa fascia di età la differenza di genere è marcata: sono a termine il 25% dei contratti tra gli uomini e il 32% tra le donne. Detto altrimenti, un terzo delle donne nel periodo cruciale per la fecondità ha un contratto a tempo determinato.
Un’indagine retributiva periodica di Odm Consulting, società di consulenza Hr di Gi Group Holding, pubblicata sul Corriere della Sera, dice che dal punto di vista della retribuzione, il gap di genere, la differenza di trattamento fra uomini e donne si attesta al 10,7% nel 2023 in linea rispetto al 2022. La differenza diventa più marcata tra i dirigenti, dove arriva a essere del 12,9%, mentre tra i quadri è solo del 5,9%. I dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps dice che nel 2022 la differenza di retribuzione tra uomini e donne in Italia ha raggiunto i 7.922 euro. Il divario è correlato in modo significativo alla maggiore presenza di lavoro part time tra le lavoratrici secondo il rapporto.
Da anni l’otto marzo è diventato “lotto marzo” a rappresentare una giornata della donna sempre più votata alla rivendicazione dei diritti delle donne e non più al festeggiamenti delle donne. La strada da fare è ancora lunga se si pensa che anche l’origine di questa festa è tutta di lotta, agli inizi del Novecento fra fabbriche e suffragette, fra drammi dello sfruttamento e diritto negato al voto. Ed oggi ancora molti di questi diritti vengono negati.