Con l’arte di Letizia Palagonia, architetto e fotografa, ci si mette in viaggio. Non c’è una destinazione precisa, un luogo lontano, o vicino. Lo spazio è indefinito, può essere ciò che è accanto a noi, o ciò che dista moltissimo da noi. È una partenza verso una dimensione esterna ma solo apparentemente. Si è in movimento e si è fermi sempre allo stesso punto. Si è nel flusso ma anche nell’immobilità. Un po’ come lo sguardo della stessa artista, che ritrae se stessa, e in una sorta di magnetismo ci svela un non detto della sua interiorità, della sua anima.
A Letizia nelle sue foto interessa entrare nella natura delle cose, coglierne la poesia che le anima, la magia del non detto. Può essere una nave, il colore di ghiaccio del mare, ma anche ciò che resta di un’antica architettura. La emoziona ciò che sopravvive, resiste, oltre il tempo, i disastri che stravolgono le città del mondo. Ama l’essenzialità, i profili definiti (Solitaire Namibia), la capacità di evocazione degli sfondi ma anche i contrasti.
La fotografa nelle sue opere avvicina il moderno e l’antico, quasi a voler cogliere il segno lasciato dalla storia ma anche ciò che si sostanzia nel presente. Il suo però, si badi bene, non è realismo: è solo la traccia visibile del suo sguardo sulla città ma anche sulla natura che tende a fissare ciò che in genere sfugge, a fermarsi su un colore, su una coppia di elefanti mentre passano, andando in direzioni opposte, l’uno accanto all’altro, quasi a simboleggiare i percorsi della vita, in cui ci si incontra per un istante, senza trovarsi effettivamente mai.
Mi colpiscono i dettagli delle sue foto. Ad esempio, quando si sofferma su un cielo della sua città di adozione, cioè di Palermo (lei è originaria della provincia di Agrigento), che si stende su dei cantieri culturali. Qui un particolare mette in moto non solo la fantasia di chi la vede ma anche una memoria sedimentata nel fruitore, fatta di associazioni simboliche, di ricordi, di suggestioni.
La ricerca artistica di Letizia è sempre volta a indagare e a penetrare ciò che è velato: del deserto, per esempio, la affascina la capacità di farsi onda, i colori che sa assumere, le tonalità, la sua effimera plasmabilità. Il suo è un mondo fatto di volti colti in una posa, magari in una chiesa, di geometrie naturali che sanno evocare indefiniti significati simbolici, di pinnacoli di chiese che si elevano verso il cielo, del fremito del corpo di una donna nell’atto di danzare, di città in movimento.
Concludo soffermandomi su una foto intitolata Scivolando verso il mare. È dedicata all’isola di Salina. Per la sua bellezza ma anche per la scelta del nome credo che ben renda l’arte che caratterizza le foto di Letizia: il suo è un continuo scivolare verso le cose, cogliendone le forme, come nel caso dell’isola, le rocce, e poi l’arrivo fino al mare che assume di volta in volta la forma che lo sguardo vuole dargli. Per citare il titolo di una sua opera: Il mare comunque!