Oggi porto con me nella mia passeggiata gli Adagia di Erasmo da Rotterdam (Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di Silvana Seidel Menchi, Einaudi, 1980). Lo rileggo dopo tanti anni. L’ho trovato fra i miei libri, durante la pausa estiva. Credo non sia più in commercio. È una bella edizione, curata da Silvana Seidel Menchi, ed edita da Einaudi nel 1980. Mi colpisce fin dal primo adagio (Re o matti si nasce) l’attualità di Erasmo, che denuncia la cattiva gestione del potere, che ai suoi tempi era in mano ai principi. Scrive Erasmo (p.15):
[…] Non c’è creatura più nobile di un buon re, più costruttiva, più vicina a Dio; di contro non c’è creatura più sozza di un cattivo principe, più deleteria, più vicina al maligno. Se il principe benigno è una specie di divinità, non c’è però belva più perniciosa del tiranno. E chi è il tiranno? Tiranno è chiunque gestisca il potere nel proprio interesse, sotto qualunque titolo egli appaia nei ritratti o nei monumenti. […]
Erasmo è consapevole che non c’è possibilità di eleggere una persona idonea al governo. Principi si nasce, ragion per cui si può solo intervenire sull’educazione del principe che potrà essere una benedizione o una calamità collettiva (p.17). Bisognerà scegliere, per impedire che il principe diventi tiranno e amministri male il potere, un educatore di grandi qualità. A questi spetta il compito di fargli comprendere che chi ‘gestisce il potere nel proprio interesse, e non nell’interesse della collettività, è un masnadiero, non un principe’ (p. 19).
Nel secondo adagio (Far pagar gabella al morto) critica un costume del suo tempo che reputa estremamente negativo, cioè la frenesia del guadagno (p.30). Non c’è più cosa sacra o profana che non sia stata trasformata – asserisce Erasmo- in una fonte di reddito. È un malcostume che investe principi e sacerdoti, chiunque insomma abbia potere, e lo usa per trarne un profitto (p. 33):
[…] Non puoi entrare in un porto senza patire un’estorsione, non puoi superare un ponte senza metter mano alla borsa. Se vuoi attraversare un fiume, devi fare i conti con le prerogative del signore locale; se hai un piccolo bagaglio, quei furfanti te lo sequestrano e ti costringono ad andarlo a riscattare. E – cosa molto più disumana – i ceti più umili si vedono defraudati del necessario, tutta una serie di decime e di contributi viene a rosicare morso a morso il pane del povero. […]
Nel terzo adagio (Ora che hai in mano Sparta, abbine cura) Erasmo ci ricorda che ognuno ‘deve recitare dignitosamente la parte che si è assunto (p.41):
[…] Se vescovo? E allora fai il vescovo, non il satrapo. Sei maritato? Fai l’ufficio del marito. Sei uomo di corte? E fai l’uomo di corte. Sei giudice? Non far più l’amico o il nemico, fai il giudice. Ti toccò in sorte il principato? Fai il tuo dovere di principe. […]
Nel proverbio I Sileni di Alcibiade Erasmo riflette sul rapporto realtà/apparenza. Nei nostri giudizi -sostiene- non dobbiamo fermarci all’apparenza: ciò che in un primo momento potrebbe sembrarci dozzinale potrebbe in realtà non esserlo, e rivelare delle qualità inaspettate. Come esempio riferisce il caso di Socrate. Chi lo avesse giudicato dall’aspetto non l’avrebbe pagato un soldo (pp. 63-4). In realtà era un uomo dotato di un animo così filosofico e di una tale serenità ‘da non curarsi nemmeno della morte’, di cui continuò a prendersi gioco incaricando Fedone di sacrificare un galletto a Esculapio, in adempimento a un voto che aveva fatto (p. 65).
Anche il proverbio successivo (Lo scarabeo dà la caccia all’aquila) Erasmo lo sceglie pensando al suo insegnamento. In una pagina bellissima, dopo aver raccontato l’apologo della guerra fra l’aquila e lo scarabeo, asserisce che non bisogna mai sottovalutare un nemico, ‘per umile che sia il suo stato’ (p. 195). Questa conclusione prepara la dissertazione dell’ultimo proverbio, cioè di quello dedicato alla guerra: Chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia. Questa è la parte più intensa di tutto il libro. In queste pagine traspare la passione di Erasmo per la pace, e il rifiuto della guerra. La considera come qualcosa che non appartiene all’uomo, che è naturalmente portato alla socialità, e che è entrata per volontà di un essere maligno nella sua esistenza. La guerra è contraria anche, ribadisce in più parti del testo, alla sensibilità del vero cristiano, in quanto l’esempio di Cristo è di amore, concordia e mitezza. La natura (cioè Dio) ha creato l’uomo (p. 201) non per la guerra ma per l’amore, ‘non per lo sterminio ma per la salvezza, non per fare il male ma per fare il bene’. Gli ha dato ‘occhi benigni’, braccia per abbracciare, e il il senso del bacio (‘nel bacio è come se gli animi si toccassero e congiungessero’ scrive a p. 203). L’uomo è l’unico animale che ha il dono del riso e dell’allegrezza. La guerra, quindi, non ha niente di bello e di buono (p. 209), ed è sbagliato definirla bestiale o animalesca perché gli animali vivono ‘per lo più concordemente e socievolmente all’interno della propria specie, si muovono in gruppo, si difendono e si aiutano reciprocamente’. Eppure nonostante l’uomo sia fatto per l’amore non c’è per l’essere umano ‘bestia più pericolosa dell’uomo (p. 209):
[…] Noi uomini ci armiamo a rovina degli altri uomini di armi innaturali, escogitate da un’arte diabolica. Gli animali non si scatenano per qualsiasi ragione, ma solo perché sono inferociti dalla fame, perché si sentono braccati, perché temono per i cuccioli. Noi uomini – chiamo Dio a testimone- scateniamo le più tragiche guerre per le ragioni più futili […] Invece fra uomo e uomo, fra tutti gli uomini presi a uno a uno, c’è una guerra perpetua […] ogni creatura, che tradisce la propria natura, degenera e diviene peggiore che se fosse stata originariamente maligna. […]