Nel 2001 Bob Dylan aveva festeggiato i sessant’anni, compiuti qualche mese prima, portando a Taormina il Never Ending Tour, il suo tour senza fine. Ancora in grande spolvero, regalò al pubblico siciliano alcune delle sue canzoni più popolari, facendo una eccezione nella sua continua lotta contro il mito che lo porta a reinventare ogni sera le sue composizioni. Sono passati vent’anni da quella notte fantastica, conclusa all’Hotel Timeo, sdraiato sulla terrazza ad ammirare lo spettacolo dell’Etna, piluccando cibo messicano e bevendo birra sotto un ombrellone. Vent’anni trascorsi suonando in giro per il mondo, seppur malfermo sulle gambe, costretto a stare seduto alle tastiere, sostituendo la chitarra che ha suonato per quasi sessant’anni. Si alza soltanto per raggiungere, con andatura caracollante, il centro del palco per le sue performance da crooner. Interpreta standard come Autumn leaves e Once upon a time con le gambe larghe e una posa da Elvis in pensione. Soltanto il Covid è riuscito a fermare il tour senza fine, a costringere mister Tambourine man a spegnere ottanta candeline nella sua casa di Malibu il 24 maggio.
Ottant’anni. Strana età per una rockstar, se non addirittura incongrua rispetto allo stereotipo che vorrebbe eroi sempre giovani, freschi, esuberanti. Ma il signor Bob Dylan non è tipo da farsi condizionare da così banali dettagli anagrafici. I suoi ottant’anni li dimostra tutti, fino in fondo, con segni profondi e cicatrici dell’anima. Ha un volto autentico, da nobile superstite, da sopravvissuto impegnato in una sua particolare forma di resistenza umana. È scontroso, arcigno, irsuto, un nugolo di capelli sgraziati su quel naso adunco che da sei decenni simboleggia il suo spigoloso rapporto con il mondo. Che poi è il suo grande fascino, la sua irresistibile forza.
Poeta laureato, profeta in giaccone da motociclista. Napoleone vestito di stracci. Inafferrabile, come un sasso rotolante. È stato analizzato, classificato, crocifisso, sezionato, ispezionato e respinto, ma mai capito abbastanza.
Entrò nella mitologia nel 1961, con chitarra, armonica e berretto di velluto a coste, metà Woody Guthrie, metà Little Richard. Era il primo folksinger punk. Introdusse la canzone di protesta nel rock. Rese le parole più importanti della melodia e del ritmo. La sua voce, nasale e rauca, che suona «come sabbia e colla», come disse David Bowie, e il suo fraseggio sensuale sono unici. Può scrivere canzoni surreali con una logica interna – come un dipinto di James Rosenquist o come una poesia di Rimbaud – e semplici ballate che piovono dritte dal cuore con la stessa semplicità. Può tirar fuori le tenebre dalla notte e dipingere di nero il giorno.
Definirlo un eroe dei nostri tempi potrebbe essere riduttivo. Più passa il tempo, più la storia della musica popolare si ingarbuglia in miriadi di confusi intrecci, e più la sua figura rifulge, cresce d’importanza.
Oggi possiamo dire che l’opera di Bob Dylan sembra centrale, una sorta di straordinaria e irripetibile sintesi di valori poetici e musicali, di processi sociologici e artistici. Il menestrello di Duluth, infatti, non è stato soltanto il pifferaio della contestazione pacifista. È stato anche questo, non c’è dubbio, ma è stato molto di più. In quegli stessi anni, la stagione della protesta giovanile, in quel decennio infuocato in cui la sua figura e alcune sue canzoni (Blowin in the wind su tutte) si saldarono in modo inestricabile con le vicende sociali e politiche del tempo, Dylan riuscì anche a essere il cantore del lato oscuro del sogno americano. Più che cantare la speranza, e l’ottimismo adolescenziale, creò una galleria di eroi perdenti, amari, maciullati dall’“american way of life”. È una vera e propria galleria di antieroi, da Emmett Till a John Brown, da George Jackson fino al pugile Hurricane.
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Più in generale si può dire che Dylan è stato il primo intellettuale della storia del rock. Prima di lui non si era abituati a conferire ai musicisti popolari, se non ai folksinger più impegnati, un rilevante valore intellettuale. Prima di lui Elvis Presley e gli altri eroi degli anni Cinquanta erano dei grandi talenti, dotati di intuito, di un selvaggio e contagioso istinto. Ma non c’era ancora la coscienza e la consapevolezza del proprio ruolo. Elementi che irrompono impetuosamente, invece, con l’avvento di Dylan, l’artista che ha portato la musica rock dall’innocenza primitiva delle origini alla profonda coscienza dei decenni successivi.
Robert Allen Zimmerman, che nel 1962 ha legalmente cambiato il suo nome in Bob Dylan, ha anche un altro enorme merito. Un po’ come a Louis Armstrong viene riconosciuto il grande pregio di aver in qualche modo portato a una prima compiuta definizione il linguaggio del jazz, che certamente non ha inventato, ma che ha rafforzato, evoluto, sintetizzato. Dylan ha compiuto qualcosa di analogo, prendendo il materiale folk ereditato dalla grande stagione degli hobo e lo ha velocemente condotto a maturazione, estendendo la portata, gli orizzonti e la potenza della canzone popolare tradizionale. Al di là delle apparenze, è lui il più grande innovatore, come dimostrò a più riprese con tutti i suoi capolavori elettrici degli anni Sessanta e Settanta.
Fin dai primi album, Dylan introduce un linguaggio complesso, preso in prestito dalla letteratura, dal cinema, dalla lingua quotidiana, da visioni sempre più surreali e audaci. Con lui la canzone diventa un prodotto artistico maturo, del tutto autonomo, capace anche di creare per la prima volta nella storia un alto livello di massa. Realtà che qualcuno comprese anche all’epoca, come John Lennon che nel 1965 dichiarò che a mostrare la strada era proprio Bob Dylan. Altri, come i membri dell’Accademia Reale Svedese, che gli assegneranno il Premio Nobel per la Letteratura, ci arriveranno molto più tardi, precisamente nel 2016.
Il mistero Dylan, grazie a una irripetibile coincidenza di valori artistici ed epocali, significò anche che, per la prima volta, musiche dichiaratamente non commerciali divennero incontenibili successi di vendita. Da quel momento l’industria discografica, costretta dagli eventi, aprì le porte al nuovo, senza più temere l’originalità e l’innovazione, consentendo l’afflusso di forze e di idee completamente nuove. Da allora la musica rock è cambiata, ma da allora è costantemente cambiato anche Bob Dylan, il primo nemico del suo stesso mito, deciso sempre a metterlo in discussione, ad osteggiarlo, a concedere poco alla platea.
Questo gli ha consentito di sopravvivere al suo tempo, di raggiungere il traguardo degli ottant’anni in modo vitale, inquieto, come un artista al quale la maturità non è servita da alibi per smettere di interrogarsi e provocare domande. Segno di una coscienza che il rock di oggi farebbe bene a recuperare. Per progredire e ritornare al passo con i tempi.
Intanto si preparano i festeggiamenti: Patti Smith, che nel 2016 andò a Stoccolma a ritirare il Nobel a suo nome – e si impappinò, commossa, mentre cantava A hard’s rain a-gonna fall – celebrerà Dylan il 22 maggio allo Spring Festival del Kaatsbaan Cultural Park nello stato di New York. Festa anche a Duluth, dove Dylan nacque il 24 maggio 1941, mentre nella vicina Hibbing, dove la famiglia si trasferì dopo che il padre Abram Zimmermann, colpito dalla polio, aveva perso il lavoro, i piani per un monumento nel cortile del liceo dove Bob (“Zimmy”) si diplomò nel 1959 sono tuttora “caduti nel vento”. Al centro delle celebrazioni anche la pubblicazione di tre nuovi libri e una riedizione: “You Lose Yourself You Reappear” di Morley, mentre il biografo Clinton Heylin tornerà a esaminare gli anni formativi in “The Double Life of Bob Dylan” e “Bob Dylan: No Direction Home” del 1986 del giornalista del New York Times e amico Robert Shelton (che nel frattempo è morto) verrà aggiornata e ripubblicata.
Elusivo come sempre, Dylan è bloccato nella casa di Point Dume a Malibu da quando un anno fa il Covid gli ha impedito di andare in Giappone per una nuova tappa del “Never ending tour”, ma non di fermarsi nel suo lavoro. Durante il lockdown ha composto un nuovo album e venduto per 300 milioni di dollari il suo catalogo musicale a Universal Music. Tra un anno poi l’apertura dell’archivio segreto affidato al miliardario del petrolio George Kaiser: il Bob Dylan Center sorgerà a Tulsa, Oklahoma, dove già, in un gemellaggio simbolico, sono custodite le carte del suo idolo Woody Guthrie. E, nel frattempo, il “grande vecchio” del rock prepara il suo ritorno sul palco nel 2022.