“I veri amici non mentono mai”, quasi un mantra che risuona roboante nelle prime due stagioni di “Stranger Things”. Una frase semplice, quasi scontata che, nella sua apparente banalità racchiude appieno il significato della parola “amicizia”. Un’idea innocente dell’amicizia che inquadra questo valore in tutta la sua purezza. Un’idea che alberga solitamente nel cuore dei bambini, categoria generazionale che giganteggia all’interno di questa produzione televisiva. Infanzia, adolescenza e maturità sono infatti le tre chiavi di volta, le tre prospettive interpretative che si sovrappongono nell’economia di una trama magistralmente costruita. Stranger Things rappresenta un’alchimia complessa, una miscela che riesce ad unire insieme ambientazioni, personaggi, dialoghi ed immagini in maniera plastica. Nella tranquilla cittadina di Hawkins, all’osservatore attento, non sfuggiranno le contaminazioni che chi ha ideato questa serie tv di successo ha provato ad inserire mutuandole da altre pietre miliari del genere come i “Goonies” ed “E.T.”. Basta guardare pedalare Mike, Dustin, Lucas e Will, i tre amichetti che rappresentano alcuni dei protagonisti principali della serie, per sentire il cuore sobbalzare e la memoria focalizzarsi sulle cartoline di alcune delle scene più topiche delle due serie citate in precedenza. Stranger Things porta in scena, come direbbe il maestro del fantasy George R.R. Martin, “il cuore umano in conflitto con se stesso”, un filo conduttore che unisce tutti i generi, dall’horror al fantasy, generi così ben amalgamati in questa serie tv concepita dai fratelli Duffer.
UN’AMBIENTAZIONE VINTAGE PER UNA SERIE MODERNA. Seguire le peripezie dei protagonisti della serie rappresenta un viaggio dai toni amarcord per gli amanti dei gloriosi anni ’80. Serviva una dose massiccia di spregiudicatezza per provare a mixare in un unico cocktail gli elementi di tante culture e stagioni cinematografiche così diverse. Una baldanza quasi spaccona che ha totalmente ripagato i rischi assunti. I riferimenti tolkeniani e fantastici tratti dal popolare gioco “Dungeons and Dragons” si incastonano alla perfezione, come piccoli pezzi di un puzzle, con l’atmosfera di fantascienza che ricorda tanto quella dei più celebri “X-Files” o “La guerra dei mondi”. La tensione trasmessa allo spettatore mantiene sempre livelli altissimi sfociando in continui colpi di scena di difficile previsione, nel solco della più classica delle tradizioni horror/thriller come quella che si può ammirare nelle opere dei maestri Carpenter e King. Una miscela dove tutti gli ingredienti coesistono in perfetto equilibrio l’uno con l’altro, in “Stranger Things” ogni dettaglio è stato disposto con perizia nella giusta casella, lì dove la più piccola imperfezione avrebbe fatto implodere questo mosaico così accattivante. L’aura nostalgica di cui sembra ammantata la serie, tuttavia, non deve ingannare il telespettatore. Il tema generazionale è infatti rappresentato in tutta la sua modernità così come tutte le chiavi di lettura che si sovrappongono lungo il corso di una sceneggiatura ben articolata.
TRE GENERAZIONI, UN’UNICA CHIAVE DI LETTURA. Nessuna operazione nostalgia fine a se stessa, dunque, “Stranger Things” porta sul piccolo schermo le insicurezze e le fragilità di tre generazioni differenti. Un’infanzia dove spesso l’avere interessi diversi da quelli della massa conduce all’isolamento, alla vessazione fino a rasentare il bullismo come succede a Mike ed al suo gruppo. Il telefilm dei fratelli Duffer ci ricorda come spesso l’essere introversi, pacati, il non alzare mai la voce siano visti come un riflesso di debolezza invece che come tratti distintivi di un carattere originale. All’inizio della seconda stagione, è emblematico il dialogo tra il giovanissimo Will Buyers ed il fratello adolescente, Jonathan, che cerca di consolarlo a causa delle prese in giro dei compagni di classe dovute alle visioni di cui Will è preda dall’inizio del secondo capitolo della serie. «Il fatto è che le persone normali non fanno mai niente di importante a questo mondo, non credi?». Un elogio all’importanza dell’essere diversi, dell’essere se stessi, a prescindere da quello che pensano o fanno gli altri, a prescindere dalle mode più o meno volubili di cui le masse sono preda a cadenza regolare. Nell’era della globalizzazione, la lotta per mantenere e difendere identità plurali rappresenta un tema di drammatica attualità. E poi c’è lui, il sottosopra, la dimensione parallela che minaccia di inghiottire la piccola cittadina di Hawkins con i suoi demoni, la sua oscurità, con le radici nodose e contorte che ne popolano i meandri. Che cosa rappresenta il Sottosopra al netto delle suggestioni in salsa “Sci-fi” che gli amanti del genere avranno apprezzato? Non è forse quell’insieme di paure, oscurità, brutti ricordi, incubi che ognuno di noi si porta dentro per tutta la vita? È il cuore umano in perenne lotta con se stesso, come si diceva nell’incipit. Perché i veri nemici, gli unici limiti che rischiamo di non poter mai superare, le paure segrete che rischiano di afferrarci in ogni momento di sconforto, le perversioni ed i lati oscuri della nostra indole umana albergano tutte dentro di noi, in fondo al nostro cuore. Saper affrontare queste paure e superarle, saperci convivere, rappresenta appunto una sfida che tutte e tre le generazioni rappresentate si trovano a raccogliere. La fragilità da un lato e la determinazione dall’altro rappresentano la chiave di lettura comune a tutte e tre le generazioni dipinte in “Stranger Things”. Uno degli strumenti più efficaci che abbiamo a disposizione per vincere la paura, per chiudere le porte del Sottosopra, è l’amicizia, come traspare chiaramente dalle avventure della banda di Mike. I rapporti umani, le relazioni con le persone, vera ed unica ricchezza di questa strana umanità, ai tempi della modernità liquida sono l’unica risorsa che ci può veramente salvare. D’altronde, non dimenticate, «i veri amici non mentono mai».