Chiude in bellezza la V edizione del festival Nutida, diretto Cristina Bozzolini e Saverio Cona, e proponendo all’ora del tramonto al Castello dell’Acciaiolo di Scandicci grandi autori della scena internazionale. Rachelle Anaïs Scott porta al Festival la prima assoluta di Whispers of Resonance. Si tratta di un duetto che interpreta lei stessa con Dayne Florence. Fin dall’ingresso dei ballerini in scena si avverte come un fremito lieve, poi sempre più intenso che poco a poco si fa travolgente. I loro passi sono rapidi ma anche dosati.
Sono caratterizzati da una forza comunicativa, espressiva che mira all’essenzialità. Mi colpisce la scena minimalista: un tavolo in fondo che fa pensare a una situazione domestica e familiare; poi un uomo e una donna. Spicca il contrasto fra il bianco e il nero degli abiti, quasi a voler simboleggiare la difficoltà di comprendersi nelle reciproche differenze. Si avvertono tensioni chiuse nel cerchio della coppia, difficoltà della relazione, di un incontro autentico e profondo. C’è l’evocazione di un’atmosfera domestica ma c’è anche la tensione continua verso un oltre. Tutta la performance è giocata, secondo me, su questi due poli, cioè fra l’interno e l’esterno, fra le lacerazioni di dissidi e drammi consumati nello spazio della casa e irrisolti e l’aspirazione continua al dialogo, alla necessità di capirsi, di incontrarsi.
Rachelle Anaïs Scott costruisce una performance in cui tutto è calibrato, interiorizzato, misurato. Non è però la sua un’operazione intellettualistica. Si percepisce al contrario tanta vita vissuta, un mondo di sentimenti ed emozioni che emerge dal passato e si carica di forza ‘poetica’, di sofferenza. In ogni passo, in ogni sguardo, in ogni abbraccio, in ogni grido c’è una melodia continua che mette a nudo il mondo interiore dei due protagonisti, le linee interrotte delle loro esistenze (probabilmente un marito e una moglie), il dramma che le abita, le difficoltà di capirsi, di amarsi senza farsi del male, la solitudine, l’incomprensione reciproca ma anche l’irrompere con virulenza della passione. L’arte, ballare, rimettere in scena quanto è accaduto, quanto accade, e sembra l’unico modo per attraversare il passato, per rimettere insieme pezzi di passato, e forse per trovare un nuova ‘comunione’ con l’altro e con la vita.
Con An echo, a wave di Pilippe Kratz, interpretato da Federica Lamonaca e Giovanni Leone, mi immergo in un’atmosfera di onde, di paesaggi lievi, delicati, di increspature marine e cangianti. A tratti sento nei passi dei due giovani il respiro del mare, dei gabbiani che volteggiano sulle rive. Mi lascio trasportare dal ritmo continuo della danza in un flusso senza fine, in quello magico dell’acqua.
Come in un viaggio a ritroso, senza una meta, mi sembra di ritornare indietro nel tempo e di riscoprire la bellezza perduta e incontaminata del mare, il piacere di andare non in un luogo preciso ma verso una dimensione dove il senso di esistere è in un fluire indistinto e infinito. A ogni passo mi sento immerso in un’ebbrezza acquorea, che mi riporta alla nostra origine biologica e spirituale, a una dimensione di puro e autentico istinto vitale.
Kratz evoca la forza dell’onda in sé, la magia di essere parte di essa. La sua è una danza di acqua, di creature marine, di viaggi, di paesaggi intravisti o solo sognati. Egli attinge all’idea dell’acqua come a una sorgente che ha in sé una forza generativa e creativa, continuamente proiettata verso orizzonti nuovi, sentieri inesplorati, pienezza, gioia di vivere, un fremito continuo e struggente.La straordinaria interpretazione dei due ballerini mi regala un palpito di sensazioni, l’emozione di una sintonia perfetta, di un accordo ritrovato con la natura e l’universo.