Non le manda a dire Chamath Palihapitiya, uno che di Facebook conosce più di qualcosa, per descrivere gli effetti che, a suo dire, la popolare piattaforma social avrebbe sui milioni di utenti che ne usufruiscono ogni giorno. L’intervento di Palihapitiya è stato pronunciato durante una lezione agli studenti della “Graduate School of Business” di Stanford.
ATTACCO AL “CUORE” DEL SISTEMA. Le frasi lapidarie di Chamath Palihapitiya sull’impatto dei social nella vita di ognuno di noi acquistano un valore ancora più simbolico perché pronunciate nel muscolo cardiaco pulsante di quello che è uno dei poli tecnologici più importanti al mondo. L’Università di Stanford, dove l’ex manager Facebook ha tenuto la sua lezione, si estende infatti fino al cuore della Silicon Valley. In realtà, Palihapitiya è soltanto l’ultimo di una lunga serie di critici rispetto agli effetti perversi dei social media. Impossibile non citare le riflessioni, di portata più ampia e generale, del maestro Zygmunt Bauman sulla deriva della società globalizzata. Quando venne lanciato sulla rete e cominciò a diffondersi a macchia d’olio, Facebook fu accolto da commenti entusiastici. Uno strumento semplice, flessibile, alla portata di tutti, che consentiva di azzerare le distanze, riallacciare i nodi di rapporti persi lungo il cammino della vita, una genialata insomma. Col passare degli anni, però, Facebook ha parallelamente palesato una quantità non secondaria di aspetti negativi dal punto di vista sociale ma anche dal punto di vista della sicurezza degli utenti (si pensi, ad esempio, alla pedofilia che trova nel web la sua valvola di sfogo). Torniamo così alle parole di Chamath Palihapitiya che accusa Facebook di “programmare” i propri utenti rendendoli dipendenti da una realtà artificiale composta da “like, smiles e cuoricini”. «Mi sento tremendamente in colpa per quello che ho contribuito a creare – afferma l’ex manager – Facebook è diventato un ricettacolo di disinformazione, violenza verbale e sfogo degli individualismi più sfrenati».
DALLA VETRINA ALLE FAKE NEWS. Che Facebook rivesta ormai una posizione cruciale nelle vite di molti di noi, è un dato di fatto. Sarà per il nostro narcisismo, sarà perché ormai i rapporti umani si sono immersi pienamente in quella liquidità descritta da Bauman che li ha resi relazioni usa-e-getta, sarà la necessità di dover esprimere qualcosa, di dover condividere o “postare” un pensiero, un’opinione che magari non trova sfogo nei canali canonici della convivenza civile e democratica, sarà. Certamente non è oro tutto quel che luccica, e così Facebook. Stiamo purtroppo assistendo alla disumanizzazione dei rapporti interpersonali, sempre più mediati da uno schermo, sempre più composti da dialoghi mordi e fuggi, “ciao, come va?, tutto bene e tu?” , quella paura di “non riuscire più a sentire niente” cantata da Jovanotti aleggia sulle tastiere degli utenti. Facebook si trova spesso ad essere la valvola di sfogo delle frustrazioni di tante persone che vedono nella violenza verbale, o scritta in questo caso, un modo per esorcizzare la pressione dei propri fallimenti personali, per lasciar decantare l’isteria delle proprie paure, per lasciar filtrare una parte di ciò che si pensa realmente su tanti temi sensibili sotto quell’aura di apparente anonimato che sembra donarti l’interfaccia di un PC. Accade così di passare molto più tempo al computer che per strada, parlando e confrontandosi con le persone, ascoltando storie, problemi, emozioni. Da ciò deriva anche questo sfilacciarsi delle reti di solidarietà e cooperazione che sono alla base di ogni comunità di individui. La comunità lascia spazio all’individuo. Ad un individuo sempre più chiuso in se stesso, vanesio ed autoreferenziale, egoista ed egocentrico, accentratore, esuberante, gonfio come un pallone aerostatico galleggia sulle proprie paure, sui propri pregiudizi, sulla propria pienezza di sé. Facebook ha posto negli anni anche parecchi problemi di sicurezza legati all’utenza. Dal furto di dati sensibili (non bisogna mai dimenticare che ogni contenuto che immettiamo in rete può essere visto e scaricato da milioni di utenti a nostra insaputa) ai tentativi di adescamento che sovente vengono perpetrati ai danni dei minori che fanno uso della piattaforma. Chi scrive non crede che il problema sia Facebook in sé. L’umanità, fin dalla sua esistenza, ha ingaggiato una lotta eterna e feroce contro se stessa. In quanto esseri umani siamo fragili, facile preda delle nostre paure e delle nostre paranoie, e siamo inclini alla dipendenza da qualcosa o da qualcuno. Cambiano le epoche ma non il nocciolo autentico della nostra umanità. Che sia Facebook o che sia l’oppio o l’alcol o qualsiasi altra cosa, la questione rimane sempre la stessa. Il cuore umano in lotta con se stesso e la vulnerabilità della nostra mente. Spegnere il computer e scendere in strada, così come rinunciare definitivamente al fumo o all’alcool, dipende soltanto da noi, dal processo di riforma interiore che dovrebbe sempre caratterizzare un essere umano fino al termine della sua esistenza.