Non esiste un «diritto soggettivo» a mangiare il panino portato da casa «nell’orario della mensa e nei locali scolastici» e la gestione del servizio di refezione è rimesso «all’autonomia organizzativa» delle scuole. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, a sezioni unite, accogliendo il ricorso del Comune di Torino e del ministero dell’Istruzione, e ribaltando una precedente sentenza della Corte di Appello. Portare il «panino da casa», scrivono i giudici, comporta una «possibile violazione dei principi di uguaglianza e di non discriminazione in base alle condizioni economiche, oltre che al diritto alla salute, tenuto conto dei rischi igienico-sanitari di una refezione individuale e non controllata».
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Era iniziato tutto quando 58 famiglie famiglie di Torino, insoddisfatte per la qualità del cibo e il prezzo della mensa della scuola primaria dei loro figli, aveva avviato una causa legale contro il Comune e il ministero dell’Istruzione per vedersi riconosciuto il diritto di dare ai loro figli un pranzo preparato a casa da poter consumare insieme agli altri bambini in mensa. La posizione del Comune era di segno opposto: chi non voleva usufruire del servizio mensa doveva andare a prendere i propri figli, farli mangiare a casa e poi riportarli a scuola. Il tribunale, in primo grado, aveva dato ragione al Comune di Torino stabilendo che non era possibile portare a scuola il pranzo da casa, precisando che il tempo trascorso in mensa faceva parte dell’offerta didattica e formativa. Nel giugno del 2016, però, la Corte di Appello di Torino aveva ribaltato la sentenza di primo grado dicendo che i genitori dovevano poter scegliere tra la mensa scolastica e il pranzo a sacco. Il comune si era adeguato, ma il ministero dell’Istruzione aveva fatto ricorso in Cassazione.