Scorretto e cinico. Può piacere o no, ma l’Italia di oggi è quella di Checco Zalone. Quattro anni di attesa, tra lavorazione difficile e polemiche preventive, per approdare alla più ovvia deriva di una comicità dirompente e intellettualmente scorretta. Lo sapeva lui, nel proprio inconscio, probabilmente ancora prima della provvidenziale epifania di Paolo Virzì. E lo sapeva, in cuor suo, quella stessa fascia di pubblico e di critica che di questa maschera della mediocrità concepita dal genio contemporaneo di Luca Medici – sempre più affermato al box-office ma al suo quinto film non ancora del tutto consacrato sull’altare della reinvenzione – dimostra di non aver capito nulla ancora una volta. Nel Belpaese un Sacha Baron Cohen non lo abbiamo avuto mai, selvaggio com’è nell’interpretazione e libero da ogni schema. Non lo abbiamo avuto, non avremmo potuto averlo e non lo avremo mai.
Ma l’Italia, ancora prima di Zalone, l’hanno raccontata Alberto Sordi, Totò, e, in una satira fatta di paradossi e rappresentazioni stereotipate in modo caricaturale e favolistico, quel monumento che è il Fantozzi di Paolo Villaggio. L’ha fatto persino Benigni, quando ancora era un comico (indomito e blasfemo). Oggi lo fa Zalone, con buona pace di tutti. E siamo dei fessi se ci domandiamo il perché – in un Paese alla deriva, pieno di contraddizioni, paure e ipocrisie – si palesi, proprio nell’industria cinematografica nazionale più sterile di sempre, un attento conoscitore dei vizi e delle mediocrità nostrane.
Prima gli italiani. Ma cosa viene al primo posto per gli italiani? La gnocca! Il leitmotiv è sempre lo stesso. Zalone cammina per tutta la durata del film su un filo sottile che separa comicità e problematica seria. Dopo Quo Vado e i suoi 65 milioni di incasso, poteva propinarci qualsiasi cazzata, tanto avrebbe incassato comunque. Invece ha scelto, consapevolmente, un tema scomodo che di sicuro gli sottrarrà consensi. Tolo Tolo non fa ironia sugli immigrati, ma su chi li sfrutta. Non ridicolizza gli stranieri, ma gli xenofobi. Non ride dei diversi, ma dei razzisti. Mette a nudo con intelligenza i temi d’immigrazione, razzismo, intolleranza, superficialità, finto buonismo. Ritrae gli aspetti peggiori dell’italiano affetto da consumismo dilagante. Esalta a volte il fascismo con la superficialità di chi non l’ha mai vissuto, come spesso accade oggi. Zalone prima li fa abboccare con il trailer, poi, una volta che hanno pagato il biglietto, gli scarica addosso un film dove li mette di fronte alla loro pochezza. Quindi, se vi sentite offesi, non fate parte di una bella categoria di italiani. Immaginate se, al tempo, i ragionieri si fossero incazzati perché Fantozzi e Filini deridevano amabilmente la categoria e l’italiano medio. Per fortuna non c’erano i social, pieni di frustrati.
I tempi comici non sono più solo quelli del cabaret e del battutismo televisivo ma Zalone si conferma l’unico a poter tirare in ballo ebrei, omosessuali, negri e immigrati e di poterlo fare liberamente, (quasi sempre) senza dover ricorrere a paracule edulcorazioni. Che poi, alla fine, l’humus di questa comicità è ancora una volta tutto ciò intorno al quale ruota il dibattito politico e la nostra intera quotidianità. Lo schema è presto detto. Alla megaditta si sostituisce l’immobilismo schiavizzante e balordo della pubblica amministrazione e del pubblico impiego, che contrastano con la piaga della disoccupazione e del precariato di cui sono vittima le giovani generazioni. Al megadirettore supplice la finanza e la contingenza economica. A differenza di altre maschere, sullo sfondo c’è il paese reale, cinico ma mai esasperato, e alla base un lavoro di cerchiobottistico cesello satirico spietatamente a fuoco e ben calibrato. I vizi, i vezzi, le ideologie e la morale immorale sono le nostre, dalla pensione di invalidità al posto fisso, passando per gli slogan più spiccioli. Non c’è minimamente l’ambizione di assurgere a pastorali critiche sermoniche né quella a un’affermazione autoriale. Ciò che si staglia contro il successo commerciale è una notevole conferma di una raffinata intelligenza narrativa. Di Zaloni, con tutti i loro controversi limiti, ne servirebbero almeno un paio.
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Si è burlato di noi, ancora una volta. Sapeva che il trailer con la canzone “Immigrato”, parodia di pezzi di musica leggera alla Celentano/Cutugno, avrebbe scandalizzato tutti. E invece, Tolo Tolo è tutta un’altra storia, che rovescia in modo dirompente le aspettative “sovraniste” come già anni addietro aveva fatto (in un’Italia senza unioni civili) con i suoi “uomini sessuali” (l’intera commedia musicale strizza l’occhio a De Gregori, Endrigo e Pausini, presentando anche La Cicogna Strabica e Se ti migra dentro il cuore, scritte con Giuseppe Saponari e Antonio Iammarino). Ci aspettavamo l’italiano che se la prende con i migranti, abbiamo trovato l’evasore che, rifiutato il reddito di cittadinanza e non potendo ambire ai paradisi fiscali, scappa in Africa e sogna un’Italia di neri, convinto che “lì non si stia poi così male”. Mai utopia più grande. Mezzo stivale andrà al cinema pensando di vedere il solito film zaloniano e, invece, si ritroverà tutt’altro. Il 50% apprezzerà, l’altro 50% non è ancora pronto. Un ragazzo della murgia barese, senza titoli e senza esperienza, diventato ministro degli Esteri; le difficoltà nella conoscenza delle lingue che riscontriamo quando andiamo all’estero; le lunghe traversate della speranza cui assistiamo con superficiale rassegnazione.
Sono questi alcuni passaggi di Tolo Tolo che, in un solo giorno, è stato visto da più di un milione di spettatori e ha incassato quasi 9 milioni di euro, registrando il record assoluto di incassi. Con la descrizione in chiave ironica dei lager libici o delle carovane che attraversano la striscia subsahariana, Zalone entra nel cuore dell’Africa (set in Kenya e Marocco per venti settimane di riprese e oltre venti milioni di budget) e, partendo da un resort turistico frequentato da italiani oppressi dal fisco, arriva sino al terrore delle milizie indipendenti locali e alla rotta dell’odissea dei migranti. Un susseguirsi di tematiche sociali importanti e sullo sfondo la fuga da un’Italia che punisce chi vuole fare impresa o chi investe oltre confine. C’è la gag del fascismo che esce fuori da noi con lo stress e il caldo, come la Candida, ma si cura. C’è una sequenza in cui le due mogli, appartenenti a fazioni politiche diverse, di fronte alla notizia che il protagonista è sopravvissuto, si abbracciano. Un gesto che si presta a interpretazioni ambigue: la prima inerente al trasformismo, l’altra alla capacità di reagire (e rinsavire). Ci sono poi le sequenze oniriche, spesso in forma di brevi canzoni, come il discusso balletto in mare con i naufraghi. Ma c’è sempre “uno stronzo più nero”, come figurato ideale di speranza e fratellanza.
Meno spensieratezza e maggiore autenticità rispetto ai precedenti? Svolta politica, di campo o umanitaria? Sono i soliti cialtroni quei critici e soloni che parlano di film perfettibile, ambizioni e reinvenzione. Confezionato bene o no, solido o no, si rida più o meno del solito, Zalone può permettersi di interpretare e rivisitare i sentimenti e le pulsioni degli italiani, infischiandosene di non risultare gradito a tutti. Il risatometro lascia il tempo che trova e il personaggio è esplicito e diretto come suo solito. La metamorfosi in qualcosa di più ricercato, che sacrificando qualche risata alimenti il successo di un fenomeno che trova origine in un’opportunistica lettura dell’attualità, non è detto possa funzionare a oltranza e a cadenza regolare. Intanto, Checco irride il mondo che lo circonda, lo estremizza e lo ridicolizza. Anche se in modo più prosaico di Chaplin vestito da Hitler che palleggia con un enorme pallone a forma di globo. Ne esce un ritratto distorto ma fedele.
Sorge spontaneo il desiderio di una classe politica che dimostri la metà del coraggio dimostrato da Zalone – al quale un orientamento politico, o un punto di vista personale, appare difficile poterlo affibbiare – che dimostri la stessa libertà di rischiare il gelo ai titoli di coda perché, stavolta, pur senza impegno, al consenso ha preferito il senso. Il segreto del successo sta nell’aver creato hype non intorno a un vero e proprio trailer ma a una canzoncina provocatoria, che trascina l’italiano medio al cinema e poi smonta le sue convinzioni. Nel videoclip non c’è il razzismo, paventato in modo insulso da taluni, ma il prototipo di terrone rinnegato con tanto di giubbotto alla Salvini, auto datata e scimmiottate pose da ducetto, che si aggira nel caseggiato di “Una giornata particolare”, zona un tempo piena di fasci e fascisti. È vero, Tolo Tolo è un film razzista. Ma la razza discriminata è quella italica e chi non l’ha capito ha seri problemi di comprensione del testo e dei sottotesti. È una pedagogia sul tema dei migranti, in un’Italia vista da fuori, un po’ lo sguardo al quale a reti unificate ci spronava l’altro giorno il Presidente Mattarella. Si ride, a volte amaramente. Luoghi, tutt’altro che comuni. Vedetelo, pensatene. Il Checco Zalone inventato da Luca Medici, persona umile e intelligente abbastanza da perculare alacremente gli italiani medi (non i migranti, gli italiani), non è una nostalgica evoluzione della commedia italiana in critica di costume bensì la messa a punto di una furbissima strategia di comunicazione basata sul vero consenso, quello popolare. Tutti commentano, tutti si esprimono. Pubblico, critica e industria. Ma nessuno ha ancora capito come stanno davvero le cose. Il tema dell’integrazione in Italia è motivo di guerra accesa e, in questa guerra, Checco Zalone è come la Svizzera: non si schiera (cazzate!) e fa i soldi. Checché ne pensi Mr. Papeete, io senatore a vita lo farei pure molto volentieri. Con buona pace di ipocriti e benpensanti!