Lo avevamo previsto e così è stato. Gli Oscar 2020 hanno fatto la storia. Il trionfatore è il sudcoreano Parasite di Bong Joon-ho che, con le sue quattro statuette, si conferma l’unico vero grande titolo della stagione ed è il primo film in lingua non inglese ad esserci imposto come miglior film, nella categoria più importante. Miglior Film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior film internazionale. A nulla sono valse le 11 nomination di Joker di Todd Phillips e le 10 di 1917 di Sam Mendes, gli unici ipotetici rivali che avrebbero potuto insediare il gradino più alto del podio. Premi di consolazione per tutti gli altri competitor.
È una rivoluzione copernicana quella che l’Academy ha finito per operare, più o meno consapevolmente. Non era del tutto scontato che, al di là degli acclarati meriti artistici ed estetici, il film sudcoreano riuscisse a spuntarla in un continente – e in una nazione – che certo non si mostra particolarmente incline al confronto con il mondo asiatico. Eppure, per una volta almeno, si è saputo guardare oltre, così lontano da voler mettere da parte ogni sorta di trascurabile sostrato linguistico, politico e culturale: ne è stata simbolo la presenza dell’interprete, a veicolare alla platea hollywoodiana le emozioni dell’inattesa vittoria.
Sono statuette “pesanti” quelle di Parasite, un outsider che non solo ha spiazzato i pronostici della vigilia ma che è anche riuscito a scalzare l’imperversante moda dei cinecomic e persino un candidato ideale quale l’epopea bellica di 1917, in pieno stile Saving Private Ryan e tanto cara alle logiche degli Studios. Appare quasi come un sussulto della sinistra americana in opposizione all’austera governance di Donald Trump. Un colpo di coda inatteso, un gesto eclatante, una posizione decisa. Si è andati ben oltre le favole sulla tolleranza, sull’inclusione dei blacks e dei vicini messicani. E mai, nonostante il nuovo corso inaugurato lo scorso anno da Roma di Alfonso Cuarón, ci si era spinti a compiere l’ultimo passo di questo illuminato percorso. C’è riuscito il regista di Taegu, con un film che – in fondo – rispecchia quello del collega di Città del Messico nell’assunzione del punto di vista degli ultimi, nel loro riscatto, nella vigorosa enunciazione di una società costruita sulle separazioni. Un battesimo per l’Asia, che forse fa dimenticare l’assenza di afro-americani dal podio delle varie categorie, già prevedibile dalla carenza di nomination. La vittoria di Parasite è un autentico spartiacque, nella speranza non si tratti di una parentesi episodica. Da noi, ha conquistato persino Gianni Morandi, di cui ha utilizzato In ginocchio da te per la scena finale di Parasite.
Nessun presentatore, per la seconda volta consecutiva, ma una lunga lista di star a consegnare le statuette, da Spike Lee – che si è presentato in uno smoking viola e giallo in omaggio al campione dei Lakers Kobe Bryant e alla figlia Gianna – a Sigourney Weaver. Mentre Natalie Portman sceglie una cappa Dior Haute Couture con ricamati sopra i nomi delle registe snobbate dall’Academy. Già l’anno scorso l’attrice e regista aveva fatto una battuta prima di premiare il miglior regista. Ma la serata comincia subito benissimo, e senza polemiche. In sala la partenza è stata all black e musicale, probabilmente un modo per compensare la minoranza di candidati afro-americani. In apertura, Janelle Monae e Billy Porter hanno dato il via, insieme al corpo di ballo, a uno show tutto musical in omaggio ai film e alla cerimonia degli Oscar. Standing ovation per l’attrice che chiude dicendo: «Sono orgogliosa di essere qui, donna nera e queer».
Poi la parola passa a Steve Martin e Chris Rock che dal palco scherzavano sugli ospiti in sala: «C’è Mahersahala Ali che ha due Oscar a casa, sai a cosa serve quando lo ferma la polizia? A niente». Poi si parla dei registi candidati, tra cui Martin Scorsese («bella la prima stagione di The Irishman» dice Rock), e si affronta la questione della mancanza di colleghe donne candidate. «Ci sono bravi registi candidati quest’anno. Ma manca qualcosa?». «Un po’ di vagine…». E scatta la risata, con il conseguente applauso d’ordinanza.7
Il primo vincitore è Brad Pitt, miglior attore non protagonista per C’era una volta… a Hollywood: «È davvero incredibile essere qui, mi hanno dato solo 45 secondi, che sono sempre 45 secondi in più rispetto a quelli che il Senato ha dato a John Bolton – ha detto l’attore facendo uno dei pochi riferimenti politici della serata – Quentin le persone fanno le cose giuste, questo premio è per Quentin Tarantino: originale, unico, più che raro. Il cinema sarebbe triste senza di te, mi piace il fatto che cerchi sempre il meglio. Non potrei non essere tuo amico Leo, e grazie a tutto il resto della troupe. Dobbiamo dimostrare affetto per i nostri stuntman, le nostre controfigure, penso ai miei genitori che mi portavano al drive in e a tutte le persone che mi hanno aiutato a essere qui. Questo va ai miei bambini, faccio tutto per voi». Il riferimento è ovviamente ai sei figli che ha avuto con Angelina Jolie e questa è la sua prima statuetta come attore, dopo quello vinto da produttore per 12 anni schiavo. Intanto mentre lui ringrazia l’amico Leonardo DiCaprio, l’inquadratura si sposta alla prima fila… Con Leo e la fidanzata Camila Morrone, seduti uno accanto all’altra. La prima volta, in versione ufficiale. Tutto come da previsione anche per Laura Dern, che trionfa come miglior attrice non protagonista per Storia di un matrimonio. Ringrazia le sorelle, candidate come lei, i figli e i genitori, grandi attori degli anni ‘70: Bruce Dern e Diane Ladd, «i miei eroi, che mi hanno insegnato le grandi storie d’amore».
Il premio per il miglior film d’animazione è stato assegnato a Toy Story 4, mentre quello per il cortometraggio animato è andato a Hair Love che racconta la storia di un padre afroamericano che si ritrova a occuparsi dei capelli della sua bambina, un premio dedicato a Kobe Bryant «con la speranza che – come ha detto Bruce W. Smith, uno dei registi – tutti possiamo avere una seconda chance come lui». Lo show è proseguito con Idina Menzel, ma anche con le tante altre Elsa dei diversi doppiaggi internazionali a intonare Into the unknown, candidata agli Oscar da Frozen II. Il primo premio per Bong Joon-ho è quello per la miglior sceneggiatura originale: «Grazie, è un grandissimo onore – ha detto in inglese, prima di passare al sudcoreano – scrivere una sceneggiatura è un processo solitario ma questo premio va alla Corea del Sud. Voglio ringraziare mia moglie e tutti i miei attori che hanno dato vita a questo film». La migliore sceneggiatura non originale invece è andata al regista neozelandese Taika Waititi per la commedia Jojo Rabbit, dedicata a tutti i bambini indigeni nel mondo che vogliono raccontare storie. L’Oscar per la miglior scenografia è andato a Barbara Ling e Nancy Haigh per C’era una volta a… Hollywood, presentato da Kristen Wiig e Maya Rudolph, che hanno scherzato sulla loro capacità di recitare al di là della commedia. E poi, cantando, le due comiche del Saturday Night Live hanno chiamato sul palco Jacqueline Durant per Piccole donne, a cui hanno consegnato il premio per i migliori costumi.
Per l’Oscar al miglior documentario è stato scelto American Factory di Steven Bognar e Julia Reichert, il film prodotto dalla neonata casa di produzione di Michelle e Barack Obama. La regista ha detto: «Essere qui con i nostri colleghi documentaristi che hanno raccontato storie straordinarie da tanti posti è bellissimo. Il nostro film racconta le difficoltà di quelle persone che tutti i giorni timbrano un cartellino e vanno al lavoro per la loro famiglia. Credo che le condizioni dei lavoratori di tutto il mondo possono migliorare solo se si uniscono per farlo».
Ancora musica con la performance di Eminem che arriva a sorpresa e risveglia la platea del Dolby Theater, facendo ballare Brad Pitt e Leonardo DiCaprio con un brano di vent’anni fa Lose Yourself e poi con Randy Newman che suona al piano e intona il suo brano in Toy Story 4. Nel frattempo vengono assegnati gli Oscar per il miglior sonoro a 1917 e a montaggio sonoro a Le Mans ‘66 – La grande sfida. La miglior fotografia è quella di Roger Deakins che, dopo la statuetta per Blade Runner 2049, due anni fa, ha bissato per il film di Sam Mendes 1917, mentre il premio Oscar per il montaggio è stato assegnato a Michael McCusker e Andrew Buckland per Le Mans ‘66 – La grande sfida. Brividi per la performance di Cythia Erivo e la sua Stand Up dal film Harriet, accompagnata da un coro gospel sul palco e da una standing ovation in sala. Sul palco vestiti da gatti, James Corden e Rebel Wilson hanno annunciato l’Oscar per i migliori effetti speciali a Guillaume Rochereon, Greg Butler e Dominic Tuohy per 1917, mentre il miglior trucco e parrucco è andato al film Bombshell. Truccatori e parrucchieri, Kazu Hiro, Anne Morgan e Vivian Baker, hanno voluto ringraziare «l’attrice e produttrice straordinaria Charlize Theron per aver alzato l’asticella di questo mestiere».
È toccato a Penelope Cruz aprire la busta per il miglior film straniero e annunciare Parasite anziché il suo amico Pedro Almodovar. «La categoria è passata quest’anno a miglior film internazionale, sono felice di essere il primo a riceverla – ha detto il regista sudcoreano – Voglio applaudire questo cambiamento». Ancora musica con Elton John che su un palco coloratissimo suona e canta la sua (I’m Gonna) Love Me Again dalla colonna sonora di Rocketman. Tre supereroine sul palco Captain Marvel Brie Larson e Wonder Woman Gal Gadot accanto alla grande Sigourney Weaver («abbiamo deciso che apriremo un Fight Club, uomini ben accetti ma senza camicia», Brad Pitt ride) e siamo qui per dire che «tutte le donne sono supereroine» e per la prima volta nella lunghissima storia dell’Academy è una maestra d’orchestra a dirigere il mix di colonne sonore. E ha portato bene perché l’Oscar è arrivato nelle mani di Hildur Guðnadóttir (per la colonna sonora di Joker) che ha dedicato il premio «alle ragazze, le donne, le madri, le figli che sentono musica che riesce a uscire dal cuore alzate la voce, abbiamo bisogno di sentirvi». Appena sceso dal palco Elton John è dovuto risalire per ritirare il premio, insieme all’amico di sempre il paroliere Bernie Taupin. «Grazie a Bernie che è stata la costante della mia vita, anche quando ero fuori» ha detto John, per poi ringraziare il marito David Furnish e Taron Egerton che lo interpretava nel film. Sulle note di Yesterday, cantata dalla giovanissima stella Billie Eilish con i suoi capelli gialli, scorrono le immagini In Memoriam. Da Kobe Bryan fino a Kirk Douglas… Brividi…
Spike Lee, vincitore lo scorso anno per il suo BlackKklansman, ha premiato il miglior regista. E Bong Jon-hoo ammette: «Dopo aver vinto il premio per il film internazionale pensavo che la serata fosse finita qua. Quando ero giovane e studiavo cinema si diceva ‘più si è personali e più si è creativi’ e questa è una citazione al grande Martin Scorsese». E invita tutti ad alzarsi in piedi e applaudire il regista di The Irishman «a scuola ho studiato tutti i suoi film, è stato un enorme onore essere candidato con lui e con Quentin, che conosce i miei film più di quanto siano conosciuti in Corea. Todd e Sam sono registi che ammiro, vorrei condividere l’Oscar con tutti voi, spaccarlo in cinque parti. Continuerò a bere fino a domattina». E di questo ne eravamo certi. Consegnato dalla grandissima Jane Fonda, a cui è stata tributata la standing ovation del Dolby Theater, il premio al miglior film suggella, dopo la Palma d’oro a Cannes, la fortuna di una commedia nera che racconta la lotta di classe giocata sui diversi piani di una casa borghese. Il grande sconfitto è proprio Martin Scorsese e il suo The Irishman di Netflix mentre il film bellico di Sam Mendes deve accontentarsi delle tre statuette, tutte in ambito tecnico.
Le risate, molto brit, arrivano con Olivia Colman che annuncia il Miglior attore protagonista. «L’Oscar fa invecchiare (per i capelli bianchi, lei che ha vinto l’anno scorso) l’anno scorso è stata la serata più bella della vita di mio marito…». Joaquin Phoenix agguanta finalmente il premio dopo quattro nomination e affronta questioni che gli stanno a cuore, a partire dalla causa vegana: «Non mi sento migliore dei miei colleghi candidati o di nessuno in questa stanza perché condividiamo lo stesso amore, amore per il cinema e per questa forma di espressione che mi ha dato cose straordinarie, non saprei come fare senza. Ma credo che il dono più grande che mi abbia dato è l’opportunità di usare la mia voce per chi non ha voce. Ho pensato molto alle questioni difficili che stiamo affrontando collettivamente, dobbiamo diventare portavoce di altre cause: parliamo di disuguaglianze di genere, degli afroamericani, dei nativi, della comunità LGBT. Parliamo sempre di una razza che vuole prevalere sugli altri, penso che siamo diventati così disconnessi dalla natura e crediamo di essere al centro di tutto, come quando rubiamo il latte alla mucca per il suo vitellino. Abbiamo paura di cambiare, ma gli esseri umani sono pieni di inventiva che se usiamo la compassione possiamo realizzare sistemi che funzionino».
La chiosa del suo speech è intima e autocritica, con il pensiero sempre rivolto alla memoria del fratello River: «Sono stato un mascalzone per tutta la vita. Sono stato egoista, sono stato crudele a volte ed era dura lavorare con me. Sono grato a quanti di voi mi abbiano dato una seconda possibilità. E credo che il nostro meglio sia quando ci sosteniamo a vicenda, non quando cancelliamo gli altri per gli errori del passato, ma quando ci aiutiamo a crescere, quando ci educhiamo l’un l’altro, quando ci guidiamo verso la redenzione. Questo è il lato migliore dell’umanità. Quando aveva 17 anni, mio fratello scrisse questi versi: Run to the rescue with love and peace will follow. Grazie».