Il perché dello scontro tra Israele e Palestina ha radici storiche antiche e molto complesse. A periodi alterni si riaccendono guerriglie e scontri. In particolare, l’ultimo scontro tra palestinesi e israeliani ha portato a un’altissima tensione in tutta l’area e agli occhi del mondo puntati sul conflitto attualmente in corso.
I combattimenti tra Israele e gruppi armati palestinesi della Striscia di Gaza, in particolare Hamas, si sono intensificati martedì sera: i gruppi palestinesi hanno lanciato nuovamente decine di razzi contro città israeliane, prendendo di mira in particolare la città di Askhelon e l’area della capitale Tel Aviv, mentre Israele ha risposto con attacchi aerei sulla Striscia di Gaza. I combattimenti, iniziati lunedì a seguito degli scontri tra palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, sono i più violenti e gravi dal 2014, anno in cui ci fu l’ultima guerra tra le due parti e in cui Israele invase via terra la Striscia di Gaza.
Se lo scontro tra Palestina e Israele è storia antica che risale alla fine del diciannovesimo secolo, i perché dei combattimenti in corso a Gerusalemme possono essere ricercati nella dinamica degli eventi recenti che interessano le due parti. Il primo motivo delle tensioni tra israeliani e palestinesi è proprio una motivazione che affonda le radici nella storia. La città di Gerusalemme, per ragioni antiche, è rivendicata sia dai palestinesi sia dagli israeliani come capitale del proprio Stato. A causa della disputa storica e della presenza di entrambi i popoli sullo stesso territorio, la città di Gerusalemme fu ad un certo punto divisa in due: una parte est e una parte ovest.
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Se si guarda alla cartina dello Stato d’Israele, volendo semplificare, le popolazioni sono così divise: a ovest lungo la fascia costiera ci sono i palestinesi, di religione musulmana; al centro ci sono gli israeliani, di religione ebraica, fino a Gerusalemme ovest; mentre a est e verso la Cisgiordania ci sono i restanti cittadini palestinesi. Secondo lo Stato d’Israele, l’intera città di Gerusalemme appartiene a loro e dovrebbe essere la capitale. Una visione in contrasto con l’idea del popolo palestinese secondo cui invece, la parte est della città, dovrebbe diventare la capitale dello stato palestinese che non ha mai trovato un consenso unanime nella comunità internazionale. La parte antica della città è al centro di una contesa politica per ragioni culturali e soprattutto religiose. La cosiddetta “spianata delle Moschee” di Gerusalemme est è il centro della cultura islamica ed è la Terra Sacra al centro delle scritture coraniche. La città di Gerusalemme è però anche al centro delle scritture sacre ebraiche, oltre che cristiane. Di fatto è praticamente divisa a metà con la parte orientale dedicata al culto islamico e quella occidentale dedicata al culto ebraico, con divisioni e confini spesso molto labili. Proprio su questa linea di confine e di perenne guerriglia, negli anni sono successe diverse dispute tra israeliani e palestinesi.
Ma il motivo dello scontro, questa volta, è stata la protesta per gli sfratti di decine di famiglie palestinesi dalle proprie case che sarebbero stati programmati sempre basandosi sul principio storico di lotta tra i due popoli. Dopo settimane di tensioni, lunedì scorso dovevano essere resi esecutivi gli sfratti di alcune famiglie palestinesi all’interno del quartiere di Sheikh Jarrah per ordine della Corte suprema israeliana. Sgomberi che dovevano lasciare spazio all’insediamento di altri gruppi organizzati di coloni israeliani. Il tutto sarebbe dovuto avvenire in pieno Ramadan e nel giorno in cui gli israeliani festeggiano il Jerusalem day, ossia la festività, fortemente contestata dai palestinesi, della conquista della città nel 1967. Una ferita aperta acuita dall’ennesima occupazione che la comunità internazionale ha più volte condannato e ritenuto illegittima ma che di fatto l’autorità giudiziaria israeliana continua a permettere. Con l’inizio delle operazioni di sgombero sono iniziate le proteste sedate dalla polizia israeliana con il ricorso alla violenza. Gli scontri si sono allargati in tutta la zona orientale di Gerusalemme arrivando a lambire anche la moschea di al-Aqsa, uno dei simboli della cultura musulmana.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’intervento della polizia all’interno della moschea. Centinaia di persone sono rimaste ferite nel blitz nel corso del quale sono stati lanciati anche lacrimogeni e bombe. È a questo punto che è entrata in azione Hamas che ha lanciato un ultimatum: se entro le 18 di lunedì la polizia non avesse lasciato la moschea ci sarebbero state delle ritorsioni. Ultimatum ignorato dal Governo israeliano, che ritiene Hamas un’organizzazione terroristica, facendo scattare le prime rappresaglie armate. Dalla striscia di Gaza sono partiti una serie di razzi a corta gittata, oltre un centinaio, verso i territori israeliani. La risposta di Israele non si è fatta attendere e sono cominciati i bombardamenti nella striscia di Gaza.
Gli attacchi aerei degli ultimi due giorni hanno portato finora all’uccisione di 43 persone, soprattutto palestinesi. L’Unicef ritiene che siano stati uccisi almeno dieci bambini. Questo nonostante Israele ha dichiarato di aver colpito obiettivi militari. L’escalation di violenza fa tornare alla mente anni di conflitti durante i quali a farne le spese è stata soprattutto la popolazione civile. Nell’ultimo scontro risalente all’estate 2014, secondo le Nazioni unite, sono morti 2.251 palestinesi, di cui 1.462 civili, mentre sono rimasti uccisi 67 soldati e sei civili israeliani.