Il caso della giovanissima Ahed Tamimi, 17enne ragazza palestinese, pone dei profondi interrogativi su come il “processo di pace” tra Israele e Palestina si stia evolvendo negli ultimi mesi. Quando in fondo ad occhi limpidi come due specchi d’acqua si legge odio, paura, rabbia, frustrazione, è sinonimo di qualcosa che non sta funzionando per come dovrebbe. Gli occhi di un’adolescente dovrebbero esprimere speranza, determinazione, allegria, spensieratezza. La guerra le spegne tutte, impietosamente, e immancabilmente. Questa giovane palestinese, a dispetto della sua età, rischia di essere elevata ad icona di una lotta secolare che di sicuro è più grande di lei e che dovrebbe rimanere sullo sfondo di una stagione della vita in cui le priorità dovrebbero essere altre. Israele ha infine deciso di rilasciarla, un altro capitolo di una storia infinita di sangue e disperazione.
LO SCHIAFFO DELLA DISCORDIA. Le immagini di Ahed che prende a calci e pugni un soldato israeliano hanno fatto il giro del mondo, non tanto per la loro brutalità, quanto per il fortissimo contrasto, quasi ossimorico, tra il candore dell’adolescenza e la brutalità della guerra che imperversa tra la Palestina ed Israele. La nuova politica estera dell’amministrazione Trump ha gettato benzina su un fuoco già ardente all’ennesima potenza. Ahed è nata e cresciuta in una famiglia palestinese originaria di Nabi Saleh nei valori del pacifismo, valori che hanno vacillato e poi ceduto dando invece spazio alla rabbia di una generazione che mal tollera la presenza dell’esercito israeliano nei territori palestinesi oggetto di contesa e vorrebbe vedere nascere e prosperare un Paese indipendente e non in guerra perenne. Otto mesi fa, la scena in cui Ahed schiaffeggiò in pieno viso e prese a calci due soldati israeliani fece il giro del mondo, suscitando polemiche e proteste. La giovane subì infatti una detenzione immediata e le fu rifiutata la libertà condizionata sollevando così un coro di proteste tra gli attivisti per i diritti umani che rivendicavano un’applicazione equa delle leggi nei territori occupati nei confronti dei loro abitanti a prescindere che la propria origine fosse israeliana o palestinese. Il messaggio in diretta Facebook che la giovane ha lanciato ai suoi coetanei poco dopo aver schiaffeggiato i soldati e prima di essere arrestata otto mesi fa è emblematico del clima e della predisposizione dei giovani palestinesi nei confronti della situazione che stanno vivendo: «Spero che tutti prendano parte alle manifestazioni, che sono l’unico modo per raggiungere l’obiettivo. La nostra forza è nelle pietre, e spero che il mondo si unisca per liberare la Palestina, perché Trump ha fatto la sua dichiarazione e deve prendersi le responsabilità di ogni nostra reazione. Ciascuno deve fare la sua parte, accoltellando, lanciando pietre o cercando il martirio: dobbiamo unirci perché il nostro messaggio sia ascoltato».
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UNA NUOVA ESCALATION. La politica di potenza che il presidente degli Stati Uniti sta portando avanti, non ultima la decisione di spostare la sede dell’ambasciata americana a Gerusalemme, da sempre oggetto di contesa tra palestinesi ed israeliani, ha dato fuoco alle polveri. L’azione che Trump ha posto in essere lo scorso maggio ha avuto la precisa intenzione di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele rafforzando l’idea che la città santa sia di esclusivo possesso degli israeliani. Cosa che, ovviamente, non è e non sarà mai accettata dalla controparte palestinese. Uno strappo pericolosissimo nel fragile scacchiere Mediorientale che ha visto l’Europa quasi unanime nel dissociarsi dalle mosse di Trump ad eccezione dei governi di Austria, Romania, Repubblica Ceca e Ungheria. Forte del supporto americano, Israele ha rafforzato la sua presenza in Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, provocando sommosse corredate dall’immancabile quanto inquietante scia di sangue.