Tuccio Guicciardini, figlio d’arte di Roberto Guicciardini, è fra i più significativi registi italiani di teatro. La sua ricerca si distingue per un’attenta cura del tessuto drammaturgico e per la contaminazione dei linguaggi. Fondatore della compagnia Giardino Chiuso e dal 2016 è presidente della Fondazione Fabbrica Europa. Siamo andati a San Gimignano, in occasione della IX edizione del Festival Orizzonti Verticali, a intervistarlo per i lettori di Pickline.
Come è nato artisticamente Tuccio Guicciardini?
«Vengo da una famiglia di teatranti. Mio padre era un regista e mia madre una ballerina classica. Ho vissuto tutta la vita con attori, scenografi, tecnici, drammaturghi. Il mio è stato un assorbimento forzato del teatro. Non potevo essere altro che un uomo di teatro. Non ho seguito percorsi accademici. Sono un autodidatta con una grande scuola dietro, cioè con quella della formazione vissuta fin da bambino».
Fra i tuoi maestri chi ricordi in particolare?
«Più che di maestri parlerei di incontri. Mi hanno aiutato a elaborare una mia idea di teatro. Penso a Virginio Gazzolo, Giuliano Scabia, Sebastiano Vassalli, Micha van Hoecke, e a tanti altri».
Cos’è Fabbrica Europa?
«Fabbrica Europa nasce come festival 25 anni fa a Firenze. Si caratterizzava per un’apertura al teatro-danza performance contemporaneo internazionale. Poi dal 2003 Fabbrica Europa è diventata Fondazione e dal 2016 ente di Rilevanza Regionale per lo spettacolo dal vivo e tale inclinazione per il contemporaneo si è spostata su tutta la regione con vari progetti».
Come è nata la collaborazione con Patrizia de Bari?
«Io e Patrizia ci siamo incontrati sul palcoscenico. Ci siamo sposati e siamo riusciti a coniugare anche il linguaggio scenico. Lei è una danzatrice, io sono un uomo di teatro. Il nostro linguaggio è molto contaminato dalla parola e dal gesto».
Qual è la tua idea di teatro?
«Per me uno spettacolo deve avere una sua necessità. Ricerco un teatro che abbia una forte motivazione di comunicazione del soggetto e dell’oggetto da mettere in scena, con una base narrativa solida, per una ricerca dei contenuti necessari alla nostra contemporaneità e con valenza sociale, filosofica e poetica. Questi sono per me dei punti imprescindibili. I miei spettacoli sono sempre caratterizzati dalla contaminazione dei linguaggi. Ma anche in uno spettacolo di danza, dove prevale il movimento in una quasi assenza di parola, c’è sempre una ricerca di un forte tessuto narrativo».
Per quale motivo è nato Orizzonti Verticali?
«Il festival Orizzonti Verticali è giunto alla nona edizione e si è svolto sempre a San Gimignano. All’inizio il tema centrale del Festival era Generazioni a confronto. Avevamo notato uno scollamento generazionale fra i giovanissimi e i super-adulti, cioè i grandi del teatro. C’era stato un cortocircuito, in cui anche la mia generazione, quella dei cinquantenni, si è trovata un po’ spaesata, nel senso che è stata una generazione un po’ cuscinetto rispetto a quella del ’68, una generazione che ha ereditato un periodo straordinariamente fecondo e innovativo, difficilmente replicabile. A un certo punto il “passaggio di testimone” non ha più funzionato e i giovani e i super adulti non dialogavano più. Abbiamo messo in piazza questa problematica per capire quale dialogo si poteva innescare fra giovani e gli anziani del teatro».
La pandemia però ti ha spinto a cambiare qualcosa?
«Sì, certo. L’anno scorso abbiamo ripensato il format del festival. Ci siamo detti: facciamo un unico spettacolo, senza soluzione di continuità, in cui lo spettatore può scegliere cosa vedere, ma è tutto compreso in un’unica partitura. Abbiamo allestito un grande palcoscenico in piazza, vuoto, con una tela bianca dove si potevano incollare dei fogli di libro, come testimonianza di frammenti della nostra cultura da conservare per poter poi avviare un nuovo inizio, quindi non con una connotazione negativa ma positiva. Il festival era costellato di piccoli eventi che giravano intorno a questo palcoscenico, sempre molto frammentati come se fossero una pagina strappata. Proprio per dire che c’è una voce interrotta, che si vorrebbe proseguire a leggere quella pagina ma per poterlo fare bisogna ricostruire la rilegatura dell’intero libro».
E quest’anno questa iniziativa come è proseguita?
«In un paese medievale come San Gimignano abbiamo pensato di riscoprire gli Horti conclusi, cioè i luoghi dove i monaci meditavano e coltivavano le piante preziose. Così abbiamo messo i vari semi, cioè gli artisti nei vari orti. Mi piace molto questa idea, anche perché ha richiesto la partecipazione delle persone di San Gimignano, che nonostante il Covid hanno aperto la propria casa, i loro giardini privati. È stata una prova di enorme generosità e sensibilità».
Mi parli dell’Imputato non è colpevole?
«L’Imputato non è colpevole programmato ad Orizzonti Verticali è stato proposto in una versione inconsueta per il teatro, visibile in realtà virtuale, in un giardino “tecnologico”».
Quale soluzione tecnologica avete adottato per questo spettacolo?
«Abbiamo usato Oculus, un visore che consente di vedere lo spettacolo in una situazione immersiva. È un segno molto futuristico che propone un nuovo approccio al teatro».
Come è nato questo spettacolo?
«È capitato. Le cose capitano. Non sono sempre studiate. Avevo conosciuto Antonia Arslan, l’autrice della La masseria delle allodole. Un giorno ci siamo incontrati e abbiamo parlato dell’Armenia. C’era anche Fulvio Cortese, un professore di diritto amministrativo, molto attento alle questioni armene. “Che cosa fai?”, mi ha domandato. “Teatro”, ho risposto. “Dovresti mettere in scena il processo a Soghomon Tehlirian”, mi ha suggerito. E così è nato L’imputato non è colpevole».
Quando ci sarà la prima nazionale e di cosa parla?
«È già andato in scena in forma di studio. Lo stiamo riadattando per la prima nazionale a teatro per la prossima stagione invernale con un contributo di Michele Santeramo. Il testo è tratto dagli atti del processo del ’21 a Soghomon Tehlirian, un armeno di 21 anni che ha ucciso a Berlino il Talaat Pascià, uno dei responsabili del genocidio armeno, assolto dal tribunale tedesco per varie motivazioni politiche. La messa in scena è scarna: c’è il presidente, l’imputato, una giuria. Il genocidio armeno è raccontato attraverso gli occhi di questo personaggio. Secondo me è uno spettacolo necessario, perché ha una funzione di ricordo e attenzione verso questo tipo di cose. Indirettamente parla della brutalità compiute dagli uomini nel passato e nel presente».
Il tuo interesse per l’Armenia è casuale o è legato a un’esperienza personale?
«No, non è casuale. Sono stato due anni in Armenia e abbiamo messo in scena due spettacoli. Lì ho compreso la sofferenza di questo popolo, la sua dignità, le sue urla non ascoltate. Gli armeni hanno subito invasioni in ogni fase storica e per difendersi hanno costruito delle chiese incastonate nella roccia. Amano la scrittura e la lettura, l’arte. Sono però anche un popolo un po’ sconosciuto all’Occidente. Solo recentemente, dopo più di cento anni, è stato riconosciuto il genocidio armeno dai tedeschi e dall’America».
Siamo nell’era del Covid. Pensi che debba cambiare il modo di fare teatro?
«Sì. Il teatro post-covid dovrà avere dei forti motivi drammaturgici».
Quali sono i tuoi progetti futuri?
«La prima nazionale a teatro dell’Imputato non è colpevole entro l’anno. Poi la ripresa dello spettacolo Inverno al teatro Quarticciolo a Roma il 2 e 3 dicembre. Infine il progetto Sentieri di carta che sarà proposto nel 2022 in tutti i siti UNESCO, grazie al patrocinio dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale».