Non abbiamo ancora fatto in tempo a liberarci di uno stato d’emergenza (quello vigente da fine gennaio 2020 per via del Covid) che il Consiglio dei ministri guidato da Mario Draghi ha adottato la “Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione all’esigenza di assicurare soccorso ed assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto”. «È un impegno di solidarietà, che non avrà conseguenze per gli italiani, e che non cambia – ha puntualizzato il premier- la decisione di porre fine il 31 marzo allo stato di emergenza per il Covid-19».
In sostanza, quindi, un atto dovuto per facilitare il dispiegamento di aiuti umanitari e militari a favore dell’Ucraina. Nel dettaglio, lo stato di emergenza per la situazione ucraina che durerà fino al 31 dicembre 2022 – il provvedimento è revocabile in qualsiasi momento nel caso in cui le condizioni di emergenza finissero – prevede l’invio di soldati e mezzi militari sul fronte orientale della Nato, fondi per gli aiuti umanitari in Ucraina e il rafforzamento, durante la guerra, dell’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri per la tutela degli italiani all’estero e la Protezione civile, che potrà intervenire anche in Ucraina in caso di emergenze umanitarie. Previste inoltre soluzioni per eventualmente aumentare l’offerta e/o ridurre la domanda di gas in caso di emergenza.
Nessun collegamento, dunque, neppure indiretto, tra lo stato di emergenza umanitaria per l’Ucraina e quello legato al Covid. Anche se l’espressione “stato di emergenza” usata nel provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri ha colpito l’immaginario collettivo. Ma il punto è un altro: l’emergenza si è a tal punto istituzionalizzata da essere stata normalizzata. A furia di tenere in piedi lo stato d’emergenza in assenza di emergenza, quando l’emergenza è arrivata davvero nel cuore dell’Europa, fatichiamo a non considerare pure questa come ordinaria. Si sta realizzando la profezia di Giorgio Agamben dello stato d’eccezione permanente? Catastrofi economiche, climatiche, sanitarie, belliche: ormai tutto è diventato emergenza.
A riprendere il concetto di «stato di eccezione» in tempi recenti e quasi profeticamente è stato il filosofo Giorgio Agamben. Sulla scorta delle teorie di Carl Schmitt, Agamben individua nello stato di eccezione la sospensione dell’ordine costituzionale ad opera della stessa autorità statale che dovrebbe garantirne il rispetto. Contestualmente, riconosce che l’adozione di misure provvisorie e straordinarie sta diventando una consueta tecnica di governo, che rischia di trasformare tutto in emergenza.
Il suo pensiero, nel corso della epidemia di Covid-19, si è distinto per andare contro la narrazione mainstream. Analizzando le prime e nuove misure di emergenza adottate in Italia, il 26 febbraio 2020 Agamben affermava: «Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo». Rispondendo a un giurista, il 30 luglio 2020, il filosofo contemporaneo solleva una questione dai risvolti illuminanti: «Quali che siano i suoi scopi, che nessuno può pretendere di valutare con certezza, lo stato di eccezione è uno solo e, una volta dichiarato, non si prevede alcuna istanza che abbia il potere di verificare la realtà o la gravità delle condizioni che lo hanno determinato.»
Il problema è il seguente: chi stabilisce cos’è eccezionale e cosa no? In altre parole, quali caratteristiche deve avere un’eccezione per essere tale? O si determina con certezza cos’è un’eccezione o l’eccezione diventa la regola, con conseguenti stati di eccezione che soffocano volentieri le libertà.