I social network possono sospendere gli account degli utenti non favorevoli alla vaccinazione anti-Covid e rimuovere i contenuti che veicolano disinformazione sanitaria. Questa, nei fatti, la conseguenza della controversa decisione assunta dal Tribunale di Varese, che ha respinto l’azione legale di un’utente sospesa da Facebook. Ebbene, il giudice ha stabilito che cancellare i post e sospendere i profili definiti “no vax” non rappresenti una violazione della libertà di pensiero. Il motivo? Secondo il tribunale i diritti degli utenti trovano precisi limiti di fronte a situazioni di emergenza o di rischio.
La ricorrente era stata bannata dal social per aver condiviso, senza nemmeno commentarlo, il video di una parlamentare che, in Aula, in una diretta trasmessa dalla Rai, esprimeva la propria posizione sui vaccini anti-Covid definendoli «iniezioni letali». A riportare la notizia è Norme e Tributi + de Il Sole 24 Ore. La donna si è rivolta al tribunale varesino contestando la violazione del contratto. Facebook concede all’utente l’accesso gratuito ai servizi della piattaforma e, in cambio, gestisce i suoi dati a fini pubblicitari: secondo la ricorrente, l’equilibrio delle controprestazioni sarebbe stato compromesso dalla piattaforma attraverso una «clausola vessatoria», che ha consentito al social di censurare insindacabilmente i contenuti che non rispettano «gli standard della community».
La giudice Marta Recalcati che ha emanato l’ordinanza ha rigettato l’istanza sostenendo che «Facebook presta un servizio, dietro a un corrispettivo, a determinate condizioni» tra cui «obblighi di comportamento» che «devono essere rispettati dall’utente». Facebook, insomma, è una piattaforma privata, e chi vuole entrare deve attenersi a delle regole ben precise.
Il punto è: queste regole rispettano la Costituzione italiana? È lo stesso giudice a convenire che non solo la Costituzione, ma anche la normativa internazionale, definiscono il diritto alla libertà d’espressione come un «diritto inviolabile, il più alto dei diritti primari e fondamentali». L’articolo 21 recita che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» e che «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Il giudice riconosce anche che c’è un solo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, fissato al comma 6 dell’articolo 21: il «buon costume».
Come si passa dall’articolo 21 alla censura di un video del servizio pubblico che riprende un deputato nell’esercizio delle sue funzioni? L’ordinanza lo ha fatto ripescando alcune vecchie sentenze della Corte costituzionale che estendono i limiti dell’articolo 21 decretando che la libertà deve essere bilanciata anche con «i diritti della personalità (alla riservatezza, all’onorabilità e alla reputazione)» e con «gli interessi di natura pubblicistica relativi alla sicurezza dello Stato». Secondo il tribunale, le riserve di legge non si limitano, dunque, soltanto al buon costume e la clausola di Facebook non è vessatoria perché gli standard rispettano «leggi e diritti aventi rilevanza costituzionale».
«Anche se il pensiero dell’onorevole non può essere limitato», recita l’ordinanza, esso contiene però «affermazioni sui vaccini» definite «contrarie agli standard». Ecco la spiegazione: dato che gli «standard» sono «finalizzati a limitare la diffusione di notizie false relative al Covid-19 e mirano a tutelare la salute pubblica», di fatto hanno quella «rilevanza costituzionale».
Dunque, attraverso questa ordinanza il Tribunale di Varese legittima a tutti gli effetti l’oscurantismo verso i post di stampo “no vax”, con buona pace di chi, a ragion veduta, espone i propri dubbi verso un vaccino che, alla luce delle ultime evidenze scientifiche, risulta avere più rischi che benefici per buona parte delle fasce d’età a cui è stato incautamente somministrato. Ne consegue che Facebook, legittimato da un Tribunale italiano, può decidere in autonomia quali e quante informazioni far circolare su dato argomento. E soprattutto su un argomento delicato come quello dei vaccini. Infatti, è bene sottolineare come il famoso social network abbia tacciato di disinformazione un gran numero di scienziati, medici e premi Nobel, rei di non aver abbracciato il dogma della vaccinazione a tutti i costi. In tale contesto, la sentenza del Tribunale di Varese sembra avvicinarsi molto ai proclami del “Ministero della Verità” di orwelliana memoria.