Mascherine sì o no? Dopo le voci di una presunta circolare del Ministero della Salute che prevederebbe il ritorno dell’obbligo di mascherina al chiuso in caso di un peggioramento della situazione epidemiologica si torna a parlare dell’efficacia dei dispositivi di protezione nel ridurre il contagio da Sars-Cov-2.
Uno studio demolisce, definitivamente, l’unico lavoro su vasta scala (realizzato in 600 villaggi del Bangladesh) pubblicato un anno fa sul Washington Post che sosteneva che le mascherine riducevano del 10% le infezioni da Covid con sintomi. Già sbugiardato ad aprile sull’impianto generale, in questi giorni, è stato messo all’angolo dall’analisi statistica pubblicata su Bmc (Biomed central journal) rivista della galassia Nature. Per decenni, diverse ricerche hanno dimostrato che le mascherine non funzionano contro la trasmissione di virus respiratori, se non in determinate circostanze. Lo afferma perfino una review dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2019, quindi prima del Cvid: nessuno dei dieci studi considerati dimostra «un beneficio statisticamente significativo» di tali dispositivi nel ridurre il contagio di virus simil influenzali, di cui fa parte il coronavirus. Con l’inizio della pandemia, sono improvvisamente comparsi studi che affermano il contrario.
Già lo scorso aprile, un articolo di James Agresti, consulente dell’Heartland Institute, un ente di ricerca americano, dimostra che l’esecuzione e l’interpretazione dello studio in Bangladesh non sono attendibili, confutando che l’obbligo di mascherine «nelle chiese e nel corso di eventi pubblici potrebbe salvare migliaia di vite ogni». Gli autori, osserva Agresti, «hanno modificato il loro studio per escludere i dati che potevano smentire» l’efficacia dei dispositivi, in «palese violazione dell’etica della ricerca nascondendo i danni dei dispositivi, che sono molto più comuni e gravi di quanto non siano considerati dai governi e dai media».
La cosa più grave è che mancano i dati su «ricoveri e mortalità», gli unici in grado di «dimostrare oggettivamente se i dispositivi salvano o costano vite», scrive Agresti. Non si può misurare l’efficacia del dispositivo nel previene il Covid-19, «come fa lo studio in Bangladesh», si legge nell’articolo, «senza sapere quante persone sono morte a causa del virus e nessun riferimento ai rischi, anche gravi delle maschere, già identificati nelle riviste mediche, come ad esempio: eventi cardio-polmonari, alti livelli di inalazione di CO2, che possono compromettere le funzioni cerebrali e la risposta a stimoli esterni, isolamento sociale» e disagio psicofisico.
Agresti elenca altri evidenti limiti dello studio, come le «statistiche traballanti» che sono invece ben circostanziate nel lavoro pubblicato in queste settimane su Bmc che, nella rianalisi, evidenzia un «ampio squilibrio statisticamente significativo nelle dimensioni dei bracci di trattamento (170.000) e controllo (157.000)». Tale differenza mina in modo sostanziale l’attendibilità dei dati, soprattutto se si considera che sono stati testati solo il 3% dell’intero campione e che in meno dell’1% dei casi sintomatici si è fatto un test sierologico di conferma perché era «su base volontaria». Ma c’è di più. I positivi confermati erano 1.086 tra chi usava il dispositivo e 1.106 tra chi non lo impiegava, pari a una differenza di 20 persone su un campione di 300.000 soggetti. Attenzione però: data la differenza nei numeri dei due campioni, i tassi di sintomatici sono risultati, nella rianalisi, molto simili: 0,68% con dispositivo e 0,76% senza, cioè una differenza dello 0,08% in più di 300.000 soggetti. In pratica, è vero che con la mascherina c’è il 9,3% in meno di sintomi, ma la percentuale è simile in chi non la indossa, solo che gli autori dello studio originale hanno omesso di dire questo particolare, tutt’altro che secondario.
In questo contesto vale la pena ricordare che, in assenza di conferme di efficacia – come recentemente ribadito anche dalla Federazione degli ordini dei medici (Fnomceo) – restano invece provati i rischi per la salute di chi indossa la mascherina, specie l’Ffp2, per un tempo prolungato. Il tutto vale, in modo ancora più evidente per i più piccoli. Una review di studi sui contagi nelle scuole, apparsa recentemente su Journal of infection , nel confermare l’inefficacia delle mascherine negli alunni, punta il dito sul danno di introdurre misure così restrittive e particolarmente dannose dal punto di vista relazionale, soprattutto nei bambini, senza l’ombra di una evidenza certa.
A questo punto, se davvero si vuole fare qualcosa di scientificamente provato, più delle mascherine, in ambienti affollati, servono due ricambio d’aria all’ora per ridurre l’accumulo di aerosol in modo più efficiente rispetto alle mascherine, il cui uso prolungato può invece dare qualche problema di salute. Queste misure diventano particolarmente importanti per i più piccoli, nelle scuole che, dopo due anni di pandemia, mancano completamente di sistemi di ventilazione, ma hanno migliaia di mascherine inutilizzabili.