L’avevamo già messa tutti nel dimenticatoio, e pure da mesi. Ma da oggi Immuni va ufficialmente in pensione. Sarà infatti dimessa la Piattaforma unica nazionale per la gestione del Sistema di allerta Covid-19, nonché la relativa applicazione. Allo stesso modo, verrà interrotto anche “ogni trattamento di dati personali effettuato dal ministero della Salute ai sensi dell’articolo 6 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020, n. 70”. A comunicarlo è il ministero della Salute, sul cui sito ufficiale è stato confermato che ormai è arrivato al capolinea lo strumento che era stato pensato per allertare tutti coloro che erano entrati in contatto stretto con soggetti risultati positivi al coronavirus.
In sostanza l’applicazione Immuni sparirà dagli store del telefonino. In parecchi, in realtà, non sapevano nemmeno che funzionasse ancora. Cosa accadrà per i cellulari su cui l’app è stata già installata? Semplicemente «non funzionerà più per attivare e ricevere le notifiche di allerta» nel caso in cui si dovesse entrare in contatto stretto con altri utenti per le finalità del contact tracing digitale. A tal proposito c’è un’ulteriore novità: Immuni non potrà essere più utilizzata per acquisire il Green pass, ma solo conservare quelli già acquisiti.
Non potevano mancare le prese di posizione da parte degli esperti. La notizia è stata accolta favorevolmente da Maria Rita Gismondo, direttore del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano: «L’App Immuni? Chi l’ha vista? Scaricata, non ha mai mandato nessuna notifica, o almeno non a me né alle persone che conosco. Non è servita assolutamente a nulla, dimentichiamocela». Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università Statale di Milano, ha parlato di «un’occasione mancata» in ottica contact tracing digitale: «Nei primi momenti, nel passaggio di informazioni, qualche impasse c’è stata. Sicuramente Immuni non è stata poi sfruttata come avrebbe potuto».
Peccato che nel frattempo, tra investimenti e campagne di comunicazione varie, abbiamo sborsato oltre 700 mila euro: 34 mila all’inizio, altri 230 mila euro a marzo del 2021 per l’adesione alla convenzione Consip dei concat center, poi 218 mila euro per lo stesso motivo nell’autunno dell’anno scorso. Infine, 220 mila euro messi dal Dipartimento per la trasformazione digitale a novembre. È stata un fiasco conclamato. Anche le app gemelle nate e sbucate in mezza Europa nel periodo del coronavirus hanno raggiunto numeri impietosi. Ma nessuna ha fatto male come Immuni.
Nel resto del continente si stima che siano riuscite a tracciare, mediamente, il 5% dei contagi registrati successivamente dai vari sistemi nazionali: da noi solo l’1%. Scaricata da circa venti milioni di italiani (i dati più aggiornati sono di gennaio 2022), utilizzata da appena 67mila cittadini con 176mila notifiche inviate: 176mila notifiche che ci sono costate, a occhio e croce, 3mila euro l’una. E pensare che Speranza ne aveva parlato come di uno «strumento indispensabile».
L’applicazione Immuni in questi anni di emergenza Covid-19 si è resa protagonista di innumerevoli controversie. Innanzitutto c’è chi aveva giudicato le immagini fuori dal tempo: le icone raffiguravano un uomo impegnato al computer, mentre la donna aveva un neonato in braccio. Una valanga di polemiche sui simboli considerati sessisti. Altre criticità hanno riguardato l’aspetto pratico dell’app. C’è chi ha lamentato ritardi e malfunzionamenti sul proprio dispositivo.
A far discutere è stata pure la questione privacy. Ad esempio il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) aveva messo nero su bianco una relazione sui profili di sicurezza del sistema di allerta previsto dall’articolo 6 del decreto-legge numero 28 del 30 aprile 2020. Era stata sottolineata la necessità di attuare la piattaforma con criteri univoci sul territorio nazionale «evitando la possibilità di interpretazioni restrittive o comunque differenziate da parte delle Regioni ed Enti locali, tali da introdurre ingiustificate limitazioni alla libera circolazione dei cittadini». Il Comitato aveva inoltre sostenuto che l’unico dato da dover immettere nell’app «dovrebbe essere un codice anonimo risultante dall’effettuazione di un tampone, escludendo quindi altre procedure che al momento non abbiano evidenza scientifica». Un’applicazione che presto sarà solo un lontano ricordo.