E se i plurivaccinati s’infettassero di più? Una domanda che torna ora che gli esperti italiani ricominciano a elogiare i nostri vaccini, screditando quelli utilizzati dalla Cina. Uno studio pubblicato su Science immunology dimostra che, a partire dalla terza dose di Pfizer si verifica un cambiamento nel tipo di anticorpi prodotti dai vaccinati. Un meccanismo che potrebbe essere collegato a una compromissione della capacità di eliminare il Sars-Cov-2 dall’organismo. Questo comporterebbe una maggiore durata della malattia e, plausibilmente, a una ridotta efficacia nel prevenire l’infezione.
Uno studio che aggiunge un altro tassello alla ricerca della verità sui vaccini anti-Covid. Ed è molto importante che arrivi ora, mentre qualcuno sembra lasciarsi prendere dalla smania di nuovi obblighi vaccinali sull’onda della psicosi cinese. Come scrive Alessandro Rico su La Verità esaminando i campioni prelevati, gli autori dello studio hanno verificato che, eseguito il ciclo primario con il Comirnaty, i vaccinati avevano generato gam-maglobuline (IgG) di tipo 1, cioè degli anticorpi associati alla stimolazione della fagocitosi cellulare e all’attivazione del complemento.
In pratica, le IgGi inducono le cellule a «divorare» gli intrusi e mettono in moto un meccanismo di mediazione umorale contro gli agenti infettivi. Fin qui, tutto nella norma. Ma già a sette mesi dalla seconda dose, iniziava ad aumentare anche la produzione di IgG di tipo 4. Il loro livello, però, raggiungeva il picco dopo il booster, «in pressoché tutti i vaccinati», nessuno dei quali aveva contratto il Covid.
A 180 giorni dalla terza inoculazione, alcuni di loro, invece, avevano sperimentato infezioni postvaccinali. In questi ultimi, le IgG4 erano arrivate a costituire tra il 40 e l’80% degli anticorpi contro la proteina Spike. Mentre chi s’era contagiato entro 70 giorni dal secondo shot non andava incontro a incrementi del livello di IgG 4. Il che significa che è la terza dose a giocare un ruolo essenziale nella liberazione di questa classe di anticorpi. Le IgG4, che in teoria accrescono l’«avidità» del sistema immunitario nell’aggredire il virus e le barriere contro i legami tra i recettori cellulari e la Spike, sono altresì collegate a «un minor potenziale» di innescare le cosiddette funzioni effettrici.
Questo comporterebbe una minor capacità di eliminazione del virus. Nella variante Omicron poi la Spike è mutata radicalmente. Dunque, il plurivaccinato non è protetto dall’infezione, quando incontra i ceppi mutati; e una volta che s’infetta, possiede un minor numero degli anticorpi utili a eliminare il virus. In definitiva, l’aumento delle sottoclassi di IgG4 potrebbe portare a una persistenza virale più lunga o favorire l’emergere di infezioni associate che beneficerebbero dello stato di relativa tolleranza indotto sul sistema immunitario. Sicuro sia saggio dare a tutti un altro «shot»?