Il Decreto lavoro che sarà varato dal governo Meloni proprio oggi, primo maggio, festa dei lavoratori, darà un’altra spinta alla precarietà: taglierà il reddito di cittadinanza, incentiverà i contratti a termine e metterà pochi spiccioli nelle buste paga dei lavoratori con redditi medio-bassi attraverso il taglio di un punto del cuneo fiscale fino a 35 mila euro grazie ai 3,4 miliardi ritagliati dal Documento di Economia e finanza (Def). Ma presto, questi soldi, saranno mangiati dall’inflazione.
Quella del governo Meloni è un’operazione politica a sicuro effetto mediatico attraverso la quale cerca di usare l’indebolito simbolo del primo maggio. Indebolito perché non si capisce chi può festeggiare. Occupati veri che guadagnano poco? Occupati finti perché precari e poveri? Lavoratori in nero sottopagati e che ogni giorno rischiano la vita e spesso la perdono? Milioni di disoccupati? Intanto ci si chiede se sia «festa dei lavoratori» o «festa del lavoro»: questione linguistica banale, che però segnala il sostanziale cambio di significato della celebrazione. Certo nasce come «festa dei lavoratori»: si decise a Parigi nel 1889 discutendo della rivendicare dei diritti di lavoratori ipersfruttati, specie nell’orario di lavoro. E si scelse il primo maggio a ricordo del massacro di tre anni prima a Chicago (1886) di lavoratori che lottavano contro lo sfruttamento. In Italia poi s’aggiunse il ricordo del 1° maggio 1947: quando, nella manifestazione a Portella della Ginestra in Sicilia, mafiosi spararono sulla folla uccidendo alcuni lavoratori. Naturalmente d’allora molta acqua è passata sotto i ponti della storia, compreso il ventennio fascista che abolì il 1° maggio.
Nonostante con la Costituzione l’Italia si proclami una «Repubblica democratica fondata sul lavoro», la festa è passata attraverso diverse circostanze storiche. Gli alti e bassi dell’economia, dovuti alle crisi cicliche, hanno sempre avuto ripercussioni negative sul lavoro. I due decenni post-costituzionali, infatti, sono quelli della ricostruzione del dopoguerra e del boom dell’industrializzazione italiana. E, con essa, della rivendicazione di nuovi diritti da parte delle varie categorie di lavoratori sull’onda di bisogni emergenti che crescono col consumismo determinando una forte crescita delle imprese e una notevole sindacalizzazione degli operai, specie dell’industria. Dalla metà degli anni Settanta s’avvertono le prime avvisaglie di cambiamenti epocali del lavoro: la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica. Le nuove tecnologie riducono il lavoro umano. Non solo appare frammentato ma diventa prima flessibile, poi instabile, infine precario.
E i vari governi che si sono succeduti anziché allestire gli strumenti per combattere la disoccupazione allargando le occasioni di lavoro dignitoso e di qualità, inventa nuove figure di rapporto di lavoro incentrate sulla precarietà (lavori autonomi, partite Iva, lavori occasionali ecc.) e al massimo aumenta gli ammortizzatori sociali. Laddove, si sa, per creare lavoro vero servono anzitutto gli investimenti pubblici e privati. Serve poi un massiccio riordino della materia del lavoro nel suo insieme e un maggiore controllo in materia di sicurezza dei lavoratori; aumenti salariali e una formazione di nuove professionalità coerenti con il nuovo mercato del lavoro. Questa gran confusione nel mondo del lavoro che non fa parlare di «festa dei lavoratori» e fa ripiegare sulla formula vaga e generica di «festa del lavoro». Rimane però il paradosso di festeggiare il lavoro mentre se ne disconosce il valore e la dignità.