Il cambio di rotta negli sconti fiscali destinati a chi ritorna in Italia dopo un periodo passato all’estero agita chi sta progettando il rientro. La norma è stata inserita nel decreto attuativo della riforma dedicato alla fiscalità internazionale, quello esaminato lunedì scorso dal consiglio dei ministri che introduce la Global Minimum Tax e dimezza le tasse per le imprese che riportano le attività nel nostro Paese.
La frenata sul rientro dei cervelli non è piaciuta alle associazioni di italiani all’estero che provano a organizzarsi anche con una petizione su Change.org per far cambiare idea al governo: i bonus fiscali, rivendica la raccolta firme, sono «l’unico appiglio di salvezza per tutti gli italiani che lavorano all’estero e sperano un giorno di tornare in Italia con un bagaglio culturale arricchito».
Fonti del ministero dell’Economia confermano che c’è l’intenzione di introdurre un periodo transitorio in base al quale gli sgravi finora in vigore verrebbero riconosciuti a chi decide di riportare la propria residenza fiscale in Italia entro il 31 dicembre del 2023, così da evitare un effetto retroattivo della norma. Ci sarebbe anche una proposta, al momento però ancora più vaga, di estendere questo periodo transitorio anche fino al 30 giugno 2024. In ogni caso le stesse fonti del ministero dicono che la modifica al momento è un’ipotesi che potrebbe anche non realizzarsi. Il decreto legislativo dovrà essere analizzato dalle commissioni competenti del parlamento, che esprimeranno un parere, e poi tornare in Consiglio dei ministri per una approvazione definitiva.
Le leggi sul cosiddetto “rientro dei cervelli”, pensate cioè per favorire il ritorno in Italia dei lavoratori espatriati, hanno una lunga storia. Il loro obiettivo è affrontare un problema strutturale del nostro paese, che ha un numero di espatri di giovani laureati e ricercatori universitari tra i più alti dell’Unione Europea. Secondo un recente rapporto della fondazione Migrantes, che cita dati dell’AIRE (l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero), sono 5,8 milioni le persone italiane residenti all’estero.
Gli studi più aggiornati al riguardo pubblicati dall’Istat nel febbraio scorso dicono che nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021 gli italiani espatriati sono stati più di un milione. Per l’esattezza 1.024.203. In media più di 100mila persone all’anno. La composizione di queste migrazioni dimostra che la quota di giovani molto formati è significativa. Il rapporto dell’Istat ice che «ha un’età compresa tra 25 e 34 anni un emigrato italiano su tre: in totale 31mila di cui oltre 14mila hanno una laurea o un titolo superiore alla laurea». Anche per questo, le misure adottate nel tempo da vari governi italiani erano pensate proprio per queste categorie di persone.
I primi sgravi fiscali per favorire il rimpatrio di italiani dall’estero furono introdotti nel 2004 dal governo Berlusconi, ed erano indirizzati solo a ricercatori o docenti universitari che avessero trascorso almeno due anni all’estero: prevedeva un’esenzione Irpef cioè uno sconto sulle imposte da pagare, del 90% per quattro anni. Nel 2010 venne poi approvata sempre da un governo Berlusconi la cosiddetta “Legge Controesodo”, che introduceva criteri più selettivi: riconosceva un’esenzione Irpef dell’80% per le lavoratrici e del 70% per i lavoratori nati dal 1969 in poi, che avessero una laurea e che avessero trascorso almeno due anni all’estero (dopo essere stati residenti in Italia per i due anni precedenti). Lo sgravio aveva una durata variabile tra i 3 e i 7 anni.
Nel 2015 il governo di Matteo Renzi approvò il decreto legislativo “Impatriati”, che entrò in vigore a partire dal 2016: l’esenzione diventava più contenuta, del 50% per un periodo di cinque anni (ma estendibile per altri cinque anni per alcune categorie, come ad esempio per chi avesse figli a carico), e veniva riconosciuta a persone laureate che avessero avuto la residenza per almeno due anni all’estero o lavoratori altamente specializzati che avessero trascorso almeno cinque anni come residenti all’estero.
Poi nell’aprile del 2019 il secondo governo di Giuseppe Conte, sostenuto da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, ha introdotto agevolazioni più estese e rilevanti con il decreto Crescita. L’esenzione dell’Irpef viene riconosciuta a tutti i lavoratori che hanno trascorso almeno due anni all’estero e decide di trasferire la propria residenza fiscale in Italia per almeno due anni. L’esenzione è del 70% per tutti i lavoratori, e sale al 90% per chi decide di rientrare in Italia e trasferirsi al Sud (dall’Abruzzo in giù). È del 90% anche per professori e ricercatori universitari. Vuol dire che queste persone rimpatriate pagano imposte calcolate solo sul 30 o sul 10% restante del reddito imponibile.
Con la nuova norma approvata dal governo Meloni la scorsa settimana, le agevolazioni fiscali diventano più contenute e i requisiti più esigenti, tranne che per i ricercatori e i docenti universitari, per cui l’esenzione resta al 90% per cinque anni. Secondo quanto previsto dal nuovo decreto legislativo, l’esenzione dell’Irpef verrebbe riconosciuta solo a chi ha trascorso almeno tre anni da residente all’estero e si impegna a restare in Italia per almeno i cinque anni successivi; l’esenzione, inoltre, si riduce dal 70 al 50% per i lavoratori, senza nessuna ulteriore agevolazione per chi si trasferisce al Sud. Insomma si pagherebbero le imposte sulla metà del proprio imponibile e non più sul 30 o sul 10%. Ma non vale per tutti: solo chi ha un reddito annuo inferiore a 600mila euro verrebbe ammesso al beneficio fiscale.
In teoria queste limitazioni delle esenzioni riguardano quegli espatriati che non hanno ancora trasferito la residenza fiscale in Italia nel 2023, il che potrebbe avere come conseguenza che tanti italiani residenti all’estero si affrettino a tornare in Italia, così da beneficiare dei precedenti sgravi, più vantaggiosi. Ma nella norma approvata dal governo c’è un aspetto che limita questo effetto. Per far sì che il trasferimento sia valido, infatti, la nuova residenza fiscale in Italia deve essere attiva da almeno 183 giorni (secondo quanto previsto dal TUIR, il testo di riferimento per le norme sul calcolo delle imposte sui redditi). Perciò chi è tornato in Italia dopo il 3 luglio si vedrà comunque applicati i nuovi regimi fiscali, meno generosi.
Questo aspetto del decreto legislativo ha un duplice effetto. Da un lato costringe migliaia di lavoratori o famiglie a rivedere i propri piani: persone che stavano valutando di tornare in Italia in virtù di una certa esenzione sono costrette a rifarsi i conti, a riconsiderare cioè l’eventuale convenienza di questo trasferimento. Ma soprattutto la norma avrebbe di fatto un’applicazione retroattiva: interesserebbe, cioè, anche chi si è già trasferito in Italia negli ultimi mesi sulla base di una legge esistente, all’oscuro dell’imminente modifica normativa che ridefinisce il regime fiscale di queste persone. Ora il governo vorrebbe correggere proprio questi aspetti con il periodo transitorio che durerebbe almeno fino a fine 2023 ed eviterebbe l’effetto retroattivo del provvedimento.
Ovviamente queste modifiche sono possibili a livello normativo ma avrebbero un impatto sui conti pubblici, i cui saldi sono già stati definiti nella Nota di aggiornamento al Def, il documento in cui il governo fissa ogni autunno i parametri fondamentali del bilancio dello Stato. Rispetto al cosiddetto “rientro dei cervelli”, peraltro, resta difficile valutare l’effetto che questo tipo di agevolazioni producono sul gettito, cioè sull’ammontare delle tasse che lo Stato riscuote ogni anno.