Scrivo di pancia su La sconfitta di Dio Sergio Quinzio. Le mie sono veloci, occasionali impressioni di lettura. Mi colpisce fin dalle prime pagine la densità della scrittura. C’è una tensione che attraversa tutto il libro che rende la parola lacerante in ogni frase. È centrale il problema di Dio; ma parlando di Dio Quinzio affronta continuamente la questione dell’umano, dello scandalo del dolore. Quinzio è cristiano ma la sua è una fede inquieta, razionale, analitica, che scandaglia, si arrovella sulle ragioni della sofferenza fino al rischio di mettere in discussione la fede stessa. Lo si percepisce già dal prologo al libro – se prologo si può definire la breve pagina che precede il primo capitolo – in cui asserisce che parlare di Dio è inevitabile dopo Hitler sia per il credente che per il non credente (p.13).
La riflessione teologica di Quinzio (ma direi più vastamente filosofica) si sviluppa per coppie oppositive. In ogni passo la forte fede dell’autore entra continuamente in collisione con l’analisi storica, con l’umano che di volta in volta, mettendo insieme fonti bibliche, conoscenza del pensiero greco e moderno (Heidegger, Wittgenstein, ecc.), mostra la tragicità della domanda che l’uomo stesso si pone su Dio.
Le promesse di Dio afferma l’autore nel primo capitolo sono di fecondità e felicità. È ciò che emerge dal patto con Abramo e con gli ebrei; queste promesse però non vengono mantenute. Già nei primi secoli della Chiesa non solo dell’Antico Testamento, ma anche delle promesse di redenzione del Nuovo Testamento (che riguardavano ‘la concretezza dell’esistenza storica e della corporeità’) viene proposta una lettura allegorica, di tipo ellenizzante, e neoplatonica. È il primo punto di rottura. Ma ce ne sono altri. Come il tema della Parusia, cioè del ritorno di Cristo (p.33). Egli nota che sarà ‘spasmodica speranza’ ma anche la ‘delusione delle prime generazioni cristiane’.
La pars destruens, cioè la stringente analisi delle promesse mancate di Dio, prepara la seconda, in cui Quinzio elabora un’idea di Dio debole, la cui storia fin dalle prime pagine della Bibbia (p. 39) è fatta di sconfitte; la creazione del mondo ipotizza – citando Kabbalah di Yitzchaq Luria – è ‘resa possibile dallo tzimtzum, il «contrarsi» di Dio’ (p. 40). Da qui l’impossibilità di Dio di esercitare la sua giustizia nel mondo, in quanto determinerebbe la fine del mondo stesso, e la necessità di un meccanismo compensatorio basato su atti sacrificali ‘che hanno anzitutto il potere di espiare ogni volta la colpa, di «compensare» l’ingiustizia, di ripristinare l’equilibrio continuamente rotto’ (pp. 41-42).
La scrittura di Quinzio procede fra rigorose analisi, vuoti di senso, inquietudini non sanate, lacerazioni, folgoranti intuizioni. Mi viene da pensare all’idea che Dio ama non ciò che è forte ma ciò che è debole (p.47), o ancora al concetto ripreso da Benjamin che ‘il tempo scorre dal futuro, che sta alle nostre spalle e non vediamo, verso il passato, che abbiamo perciò davanti ai nostri occhi’ (p. 48); o ancora l’interpretazione che Dio non è immobile eternità ma ‘vive nel tempo, è «l’Anziano» dei giorni, e il tempo che passa incide in lui i suoi segni’ (p. 101). Piccoli lampi, che aprono possibilità di ‘comprensione’ (se è possibile comprendere!) non solo di Dio ma dell’umano. E forse del tempo stesso in cui viviamo.