I divani dei produttori di Hollywood sono da sempre crocevia e volano per attrici di discutibile e altalenante talento. Harvey Weinstein, potente come pochi e un porco come tanti, è chiaramente un esempio del sistema. Ma è altrettanto ipocrita la denuncia di quante su quei divani per anni hanno “seduto” – o meglio giaciuto – consapevoli e accomodanti. Perché il confine tra ambiziose accondiscendenti vittime e viziosi carnefici è molto labile e trova la quadra nel sistema. Uffici o camere di albergo con la promessa di una carriera nel cinema in cambio di favori sessuali. Senza generalizzare, una parte di showbiz si basa da sempre su questo genere di dinamiche. La Monroe ha accalappiato un drammaturgo intellettuale come Arthur Miller che certo non era uno sprovveduto e tante altre, come Joan Crawford, ci hanno basato intere carriere, trovando una valida risorsa e un baluardo per ogni periodo di magra. Di certo non un’attenuante ma sicuramente sorprendersi per gli scandali emersi negli ultimi mesi è un po’ come conferire il Nobel per la scoperta dell’acqua calda. Gli approfittatori ci sono sempre stati; come ci sono sempre state quelle che ci stanno: una elementare situazione di libero arbitrio. Il mondo dello spettacolo vive un momento drammatico, è semplice convenire: vespai, terremoti come questo – che tutto travolgono – lasciano sempre la propria ondata flatulenta e moralista, per loro natura costitutiva ipocrita. Ma i fatti conclamati di cui si è macchiato la “sottospecie di essere umano” che risponde al nome del produttore Weinstein vanno opportunamente distinti dalla ben diversa e al contempo variegatissima congerie di “denunce” (risalenti in media a due-tre decadi prima) che hanno posto sotto i riflettori, tra gli altri, il premio Oscar di casa nostra Giuseppe Tornatore, Dustin Hoffman, Kevin Spacey, Fausto Brizzi e, da ultimo, Sylvester Stallone.
LE ACCUSE E LE REAZIONI. E in questo frangente, nel continuo bulimico fagocitarsi di notizie al grido di “sbatti il mostro in prima pagina”, il pubblico si costerna, s’indigna, s’impegna, facendo la morale a tutti con un’ottima media di post, twitter e scorreggine social. E in tanti si uniscono al coro di presunti molestati, magari a seguito della stessa confessione dedotta dalle semplici scuse pubbliche del molestatore. Il tutto, ovviamente, in nome della pubblica morale, che mette subito in piedi lo stucchevole processo alla ricerca di un colpevole o di un capro espiatorio, poco importa. Senza indulgenze di sorta, il problema sorge quando la “vittima” – più o meno consenziente che fosse – innesca una reazione a catena di denunce mediaticamente impazzita che però stenta a trovare reazioni nelle sedi giurisdizionali competenti. Ed è subito polemica. Starlette in rampa di lancio e vedette stagionate in cerca di visibilità fresca di giornata o impotenti sottomesse a torbide e sudicie logiche? Difficile dare una risposta all’interrogativo, almeno finché il nobilissimo e accorato fenomeno di denuncia resta relegato a livello di intervista o dichiarazione televisiva. Le molestie, gli abusi e gli stupri sono reati contro la persona che difficilmente vengono denunciati e quando questo avviene il sostegno alle vittime deve essere senz’altro totale, incondizionato e senza riserve. Le conseguenze psicologiche in chi le subisce sono terribili anche dopo decenni. Per cui sgombriamo subito il campo da ogni dubbio o giustificazionismo in proposito. Ma per le sentenze sarebbero preferibili le aule di un tribunale ai novelli lapidatori di piazza. E anche per i colpevoli sarebbero auspicabili giusti processi e giuste condanne e non le nuove gogne, oggi mediatiche e non meno barbare e incivili di quelle medievali. L’America, Paese notoriamente ipocrita, puritano, falsamente benpensante, sta ancora una volta dando il meglio di se in salsa paracula. E la stampa, da sempre sedicente sede deputata dell’intellighenzia, non dovrebbe derogare all’etica professionale e al buon senso. È ovvio che un’accusa di molestia leda alla reputazione di una persona, ma in assenza di prove l’accusato/a può procedere querelare il diffamatore per, appunto, diffamazione. Servono, insomma, le prove: sennò t’attacchi al tram. Basti pensare a quella ragazza che denunciò per stupro il suo assalitore senza avere prove concrete: alla fine l’accusato è stato assolto perché la presunta vittima indossava dei jeans stretti che, a detta del giudice, non potevano essere stati sfilati se non con l’aiuto della ragazza stessa. Può accadere che qualcuno o qualcuna cavalchi l’onda delle denunce per ottenere visibilità? Certamente, ma in assenza di prove… E diffamare una persona influente e potente economicamente non è proprio una passeggiata di salute.
LA CACCIA ALLE STREGHE E LA GOGNA MEDIATICA. Stiamo quindi entrando in un circolo pericoloso in cui sono in tanti a perdere e nessuno a vincere: per primo ovviamente l’accusato ma anche le vittime (spesso donne già abbastanza influenti all’epoca dei fatti per mandare il carnefice sonoramente a quel paese o che lo sono diventate esponendosi in nome della causa). Questo fenomeno di pseudo denuncia inizia a preoccupare: troppo facile muovere accuse così gravi e significative per la reputazione di un qualsiasi professionista. Se queste fossero dettate solo da risentimento e infondate sarebbe un tiro piuttosto vile e spregevole. Sarà vero, sarà moda ma il sistema “la mia parola contro la sua” è una riprovevole carognata, da ambo le parti. Un conto è sporgere una class action, un altro rilasciare un’intervista (magari pure a volto oscurato). Una gogna pregiudiziale che, d’ora in avanti, dovrebbe porre un interrogativo: un accertamento di verità (legale o storica) può trasferirsi dai tribunali ai social network o ai media? La domanda è squisitamente retorica. Colpevolisti, innocentisti o incerti dovrebbero semplicemente astenersi. Non potrebbe anche sorgere il dubbio che la versione di chi accusa non sia necessariamente la sacrosanta, totale verità, ma che vada verificata con molta attenzione? Ad ogni modo il problema è etico, morale, comportamentale, non certo giuridico alla luce di una prescrizione, nella maggior parte dei casi, più che matura e quasi stagionata! È superfluo manifestare solidarietà o biasimo. Non spetta alla stampa, non spetta al pubblico. Solo in seguito a un’istruttoria e a una sentenza definitiva, al massimo, saremmo legittimati a esprimere biasimo per le orribili colpe o la solidarietà per l’altrettanto orribile gogna ingiustamente subita. Chiamatelo garantismo, se volete. I più vorrebbero arrivare a un giudicato con la stessa facilità e velocità con cui si naviga online. E si alimenta l’infamia che nessuna sentenza cancellerebbe del tutto. L’innocenza – è cosa nota – non fa notizia come la colpevolezza. La caccia alle streghe è già stata evocata. Sono solo cambiate le streghe e i cacciatori. E così ogni uomo che in ufficio farà l’occhiolino a una collega potrebbe ritrovarsi a dover chiamare un avvocato per difendersi. C’è un lato sicuramente positivo: da oggi molti di coloro abituati a sfruttare la loro posizione per ottenere favori sessuali faranno più attenzione. Non è cambiata invece l’idea della caccia in sé, né il desiderio di gogna ed esecuzioni (mediatiche) sommarie. Mala tempora currunt. Senza tener conto che la scia di denunce e di accuse si è spostata anche al mondo della politica: scandali sessuali hanno coinvolto il Front National in Francia e hanno portato alle dimissioni dell’ex capo dei Verdi, Peter Pilz, in Austria e a quelle del Ministro della Difesa inglese Michael Fallon. E anche l’Onu è stata coinvolta in questo maxi polverone: tra luglio e settembre, le Nazioni Unite hanno ricevuto nuove denunce di abusi sessuali che riguardano il personale dell’Organizzazione. Il confine tra avances, molestia e violenza può essere più o meno sottile. I segni – anche a distanza di settant’anni – si sono visti e sentiti sul volto e nella voce di Gina Lollobrigida che, intervistata, con incredibile riserbo, garbo e sofferto pudore ha parlato delle violenze subite da giovanissima da parte di stimati uomini dello spettacolo. Negli occhi lucidi di una diva sul viale del tramonto tanto contegno e poco esibizionismo. È giusto riconoscere e distinguere le due cose, perché la violenza non è mai giustificabile ma non va ricondotta ad un mero atteggiamento poco gradito. È qualcosa di grave che va sempre condannato, non va sminuito e non va confuso, altrimenti nessuna denuncia verrà più presa sul serio.
L’AMERICA (IPOCRITAMENTE) PURITANA. E questo dilagante fenomeno condiziona il venir meno del confine tra la condotta di un uomo nella propria vita privata e la sua professionalità e carriera. Un trattamento punitivo che arriva a revocare a Kevin Spacey un Emmy professionalmente ben guadagnato ed escluderlo da produzioni già avviate. Un attore come lui, oltreoceano, evidentemente, non se lo meritano. È forse maggiore la preoccupazione dell’immagine di chi i riconoscimenti li ha conferiti che il rispetto verso chi ha denunciato. Probabilmente una scelta più di facciata piuttosto che una vera e propria damnatio memoriae. Tripudio del pubblico. Finalmente ripristinata la morale, da parte di Netflix, con la sostituzione di Spacey nella prossima serie di House of Cards? Tutti contenti e fine della storia. E poco importa se il protagonista interpretato nella serie fosse proprio la personificazione dell’immoralità, dell’assenza di scrupoli e della corruzione morale tanto demonizzata. Poco importa, giustizia è fatta e al network tutti potranno continuare a lavorare alla produzione, magari con un nuovo record di ascolti incentivato dal rumore degli scandali. In attesa di una più o meno prossima riabilitazione, chiaramente. Insomma, finché le perversioni sono rappresentate sul grande schermo tutto va bene, poi… Il pensiero va subito ad “American Beauty” (1999, Sam Mendes) nel quale il Lester Burnham, interpretato giusto dall’attore del New Jersey, si invaghiva della giovanissima Angela di Mena Suvari. All’improvviso, diciassette anni dopo, la realtà supera la finzione… Accuse di molestie, yacht, coming out e crocifissione di Kevin Spacey. Che gli americani vizi e turpitudini sappiano ritrarli solo al cinema? Hollywood dovrà in futuro vergognarsi per la propria ipocrisia. Come oggi si vergogna del Maccartismo che generò la caccia alle streghe e stilò la lista nera dei presunti simpatizzanti del partito comunista. Come allora, tanto zelo nasconde solo il timore di perdere degli spettatori ottusi o bigotti. E in questo caso per proteggere una serie o un film che con ogni probabilità sarò brutto come tutti gli ultimi di Ridley Scott, un tempo grandissimo regista e oggi macinatore di mediocrità.
L’OCCASIONE SPRECATA. Quale il rimedio? Revochiamo premi, stima, riconoscimenti e ammirazione a Walt Disney, Clark Gable, Pasolini, Hopper, Hemingway, De Amicis, Kafka, Flaubert e compagnia bella per non aver avuto una vita privata limpidissima e una morale irreprensibile? E stendiamo un velo su Roman Polanski e Woody Allen. Anzi, non sorprende che lo scandalo Weinstein sia detonato proprio da un reportage di Ronan Farrow, che le dinamiche e le sofferenze legate ad accuse così gravi e riprovevoli le ha vissute in famiglia. Il genere maschile ne esce malissimo. Ma finché le sacrosante – a volte – denunce delle vittime si continueranno a confrontare con il modello di una società già corrotta e a fenomeni televisivi sessisti e dalla moralità discutibile, l’ipocrisia continuerà a tagliarsi col coltello. E glissiamo sul fatto che le stesse testate e le reti televisive che si occupano di quest’ultimi sono spesso le prime a parlare di sensibilizzazione e di denuncia. Denunciare è un diritto e un dovere, cosa buona e giusta. Ma nelle sedi competenti e magari prima che passi mezzo secolo. Dalla molestia giornaliera però dobbiamo prenderci una pausa: per riflettere sul vero significato del caso. Senza esasperazioni e processi pomeridiani alla Barbara D’Urso. Senza il gran fracasso di giustiziere femministe e senza uomini convinti della loro supremazia. Il tutto andrebbe a scapito degli interrogativi posti. Il vero punto è la logica del “se non la dai, non lavori”. È questo il fenomeno da osteggiare. Poco importano le interviste, i commenti, i dettagli, le tempistiche, il movente della denuncia. Sempre ammesso e non concesso che questa sia fondata. Serviva una presa di coscienza più che una gogna mediatica, ma questa non c’è stata. E invece come sempre è stata buttata in caciara, in gossip vari, scoop “giornalistici”, processi social, controquerele, sparatorie e ammazzatine. Il punto cruciale lo abbiamo perso di vista e ci siamo abbandonati a tutto il resto. Un po’ come per le polemiche sorte a proposito delle dimissioni di Ventura e delle sorti della Nazionale, dopo la mancata qualificazione dell’Italia ai prossimi Mondiali. Gli spunti non mancano. Mancano gli argomenti e le riflessioni circostanziate. Non abbiamo imparato la lezione impartita dallo scandalo, sprecandola ancora una volta. L’importante è aver buttato fango e aver distrutto la carriera a qualche potente produttore o a qualche stimato regista. E così, se fino al 2016, pregavamo che il nostro artista preferito non morisse nell’anno seguente, dal prossimo anno pregheremo che lo stesso non venga accusato di molestie. Perché di questo passo finirà che l’unico a non essersi macchiato di molestie è Rocco Siffredi.