«Non si offenda, ma questa non è musica!» fu il poco lungimirante giudizio del direttore del teatro An der Wien riguardo “La vedova allegra” al suo esordio del 1905. Uno scettico e avventato apprezzamento che, ad ogni modo, non riuscì a offuscare l’imperituro successo della regina delle operette, tanto che lo stesso Franz Lehár volle proprio quella stessa frase incisa sulla medaglia che ne officiava la duecentesima rappresentazione. Ed è proprio sull’amatissimo ed eseguitissimo titolo, in scena dal 10 al 17 dicembre, che è ricaduta la scelta – condivisa dal pubblico, accorso numeroso – di chiudere la poco esaltante – a dire il vero – stagione lirica del Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania, nell’allestimento della Fondazione Pergolesi-Spontini di Jesi, in un’edizione con la direzione orchestrale affidata ad Andrea Sanguineti e la firma di Vittorio Sgarbi a regia, scene e costumi. Una “Vedova” poco fastosa ma discretamente elegante che, sebbene la partitura raffinata e spumeggiante appaia strizzare l’occhio alle ormai prossime festività di fine anno, ora si adagia ora si inerpica su una sedicente regia tanto tiepida e ardimentosa, quanto ambiziosa e pretenziosa.
LA REGIA DI SGARBI. E, in questo senso, lascia non poco perplessi la sedicente regia del sommo Vittorio, neo Assessore ai beni culturali della Regione siciliana e giunto esclusivamente in occasione del debutto catanese (senza presenziare nemmeno a una prova), ancora una volta troppo severo nel giudizio altrui ed eccessivamente indulgente con se stesso. Non se ne discute in questa sede la competenza e l’estro artistico ma certo le aspettative era ben più elevate del modesto risultato. A Matteo Mazzoni, che ha interamente curato la ripresa della regia dell’edizione etnea, ben consapevoli delle logiche del low cost dietro la scelta del titolo e dell’intera operazione, va rivolto ugualmente il giusto plauso per gli sforzi profusi. L’intervento del critico è racchiuso unicamente nella scelta dell’ambientazione e in quello che – con esagerato eufemismo – si definirebbe impianto scenico: l’indicazione formale è rappresentata dalle Terme Berzieri di Salsomaggiore, uno dei principali edifici liberty italiani, con una spazialità primo Novecento molto aerea e le preziose decorazioni di Galileo Chini. Non si avanzava certo la pretesa di una riproduzione con gli opulenti mosaici, marmi, pitture e arabeschi dello scenario. Ma è chiaro che l’immediatamente servito ingombrante rimedio della proiezione di grandi fotografie degli ambienti – a evocare i grandi saloni dell’ambasciata del Pontevedro e della residenza della vedova Glawari – certo non sorprende per originalità, per quanto si intuisca bene il gusto dell’esperto nella scelta delle stesse e di prospettive appropriate (visione tra l’altro non particolarmente agevole dai palchi degli ordini superiori). Rifuggiti scaloni da varietà in stile Wanda Osiris, la produzione pseudo-cinematografica però riduce e sintetizza tutti gli elementi scenici, coniugando – almeno nelle intenzioni – richiami storici rilevanti con la realtà italiana della borghesia della Belle époque, musica e arti figurative. La Parigi del capolavoro di Lehár è, del resto, un mondo dorato, scintillante, frivolo, sfarzoso e mondano come l’Austria del tempo, ancora ignara delle due immani tragedie che nel rapido volgere del secolo avrebbero devastato tutta l’Europa, parallelamente all’esordio delle avanguardie Cubista e Futurista. Ma le suggestive immagini, che vorrebbero rievocare eterni, dorati e immateriali spazi onirici della Vienna Felix dell’Impero asburgico, restituiscono presto un effetto asettico, accentuato da quinte-specchi e conseguenti riflessi. L’idea in sé non è malvagia – per quanto scontata – ma, piatta e statica com’è, non affascina e poco giova al clima di lusso e di festa perduto proprio dell’operetta. Anzi, l’effetto è unidimensionale, sacrificata la profondità del palcoscenico e ostacolati i movimenti delle masse. Trovate queste che, anziché fungere da elemento catalizzatore, appesantiscono e dilatano l’azione scenica di per sé leggera e briosa. A questo punto la domanda sorge spontanea: serviva la regia di Vittorio Sgarbi per selezionare quattro ricorrenti diapositive? Speriamo che, per questa affermazione, non ci si debba tacciare di essere “capre ignoranti”! Sempre sul piano visivo, durante la scena del chiosco (seltz lemon and salt not needed), molto approssimativo appare il siparietto velato: manca soltanto che Armiliato la scambi per la tenda di una doccia e inizi a cantare come nel film “To Rome with Love” di cui è memorabile interprete. La mancanza di un vero nucleo ispiratore si avverte anche nei costumi: fin troppo indistinte sono le uniformi dei personaggi maschili e femminili, ora troppo prudenti ora fin troppo eccessivi, salvo poi sfociare in un’esplosione cromatica di ingombranti costumi sgargianti o di raso lucido. Per il resto, si apprezza la linearità di entrate e uscite che, nella loro semplicità e nell’esiguità degli spazi, vengono realizzate con una certa naturalezza e la volontà di rendere i dialoghi frizzanti ma non troppo caricaturali. Talvolta, però, quest’ultimi procedono lenti e con lo stesso livello di improbabilità e irrazionalità del film “Amore e guerra” di Woody Allen. In estrema sintesi, non è sufficiente il buon gusto e l’essenzialità per far rivivere l’operetta ma si necessita di messe in scena di grande impatto visivo, tra masse ben distribuite, danze e virtuosismi coreografici.
L’ALLESTIMENTO. Musicata da Lehàr sul vivace e arguto libretto che Vìctor Léon e Leo Stein trassero dal vaudeville “L’Attaché d’ambassade” di Henri Meilhac e amatissima dal pubblico per i ritmi trascinanti, la sequela di valzer, polke, galop e can can che introducono subito nel clima di festa musicale, per gli intrighi amorosi, i tradimenti, i corteggiamenti e le schermaglie, “Die lustige Witwe” ammalia comunque per il perfetto equilibrio con cui mescola tutti i temi classici del genere: infedeltà, ménage à trois, equivoci, agnizioni, denaro, l’eccentrica mondanità aristocratica, la politica, l’invito alla leggerezza in un vorticoso e spassoso gioco di seduzione ambientato in una Parigi scintillante e “bon vivant”. E non manca il riferimento al piccolo e finanziariamente pericolante principato del Pontevedro (ironico mascheramento del Montenegro), ebbro di splendidi valzer e fiumi di champagne. La ricerca di un marito, rigorosamente pontevedrino, è il nodo attorno al quale si snoda la trama; preservare l’immenso patrimonio di Hanna Glawari, prematura vedova del facoltoso banchiere di corte, e fare in modo che il denaro rimanga in patria è lo scopo del Barone Mirko Zeta, ambasciatore del Pontevedro a Parigi, che avrà il compito di trovare un compagno all’ex consorte dell’uomo d’affari dato che il matrimonio con un parigino comporterebbe il collasso delle casse statali. Riuscirà nell’impresa – al termine di una partitura dominata dal tempo in tre quarti del valzer – grazie a una vecchia fiamma, il conte Danilo Danilowitsch, segretario dell’ambasciata, omonimo del figlio di Nicola I, re del Montenegro (ulteriore dettaglio a sostegno di interpretazioni irredentiste). L’allestimento in scena al Bellini riesce solo a tratti, cupo e scarno com’è, a restituire una Parigi opulenta, tra l’Art noveau di “Chez Maxim’s” e improbabili ambasciate di oscuri staterelli balcanici (evidente presagio d’arciduchi assassinati), ma spensierata, allegra e allo stesso tempo elegante, sede di una sana e divertente vita mondana come si addice a un capolavoro di genuina ispirazione i cui protagonisti sono coinvolti in un vorticoso e divertente scambio di coppie, promesse, sospetti e rivelazioni: un parapiglia che, come è naturale in un’operetta, al termine si ricompone nel migliore dei modi con il matrimonio fra la bella vedova e l’aitante diplomatico. Certo, non mancano nomi capricciosi alle donnine che allietano le serate piccanti dei diplomatici, i valzer pervasi da un erotismo scintillante, gli indemoniati can-can e l’atmosfera leggera che coinvolge attori e pubblico. Ma la ‘Vedova’ in questione si connota più per la malinconia vaporosa e decadente, per il senso di nostalgia carico di profumo d’erotismo che porta con sé. Al di là della scontata dicotomia tra sentimento e danaro, tra essere e apparire, descrive un mondo impalpabile che non esisteva già più: la Vienna cui culturalmente si fa riferimento viveva gli ultimi sprazzi di quella bella époque che così bruscamente sarà interrotta dai fuochi della guerra. Ma considerata una filiazione del teatro musicale e, in particolare, dell’opéra-comique francese, l’operetta appartiene al ‘teatro di evasione’ e, dall’apertura del sipario, deve divertire. ‘Evasione’ non si traduce in ‘soggetto facile’ ma serve leggerezza per liquidare con un sorriso il cinismo dei cacciatori di dote, senza perciò perdere la speranza che amore e felicità possano talvolta avere la meglio. In questo senso, il primo atto risulta poco fluido e accattivante, sacrificando freschezza e melodie sognanti, nonché poco capace di convincere se non per sparuti divertenti interventi degli interpreti. Ma lo spettacolo sortisce una svolta grazie all’abilità del cast di versatili interpreti, attorialmente ben assemblato, che senza il supporto di un allestimento – fisicamente inesistente – riesce talvolta a divertire il pubblico, moderatamente entusiasta al termine degli ultimi due atti. L’esperienza sensitiva è così parzialmente salva per merito dei numeri musicali e di linee molto morbide.
GLI INTERPRETI. La ricca, bella e virtuosa vedova, piombata dall’immaginario regno, è una buona Silvia Dalla Benetta dal carattere sfrontato, reso evidente da una voce incisiva, a tratti poco tagliente, ma cifrata dalle sfumature e le ambiguità di cui la donna pontevedrina si ammanta. Nell’atteso lied di Vilja, all’inizio del secondo atto, contempla con sfoggio di acuti a volte superflui la propria dimensione più autentica, celata sotto il baluginio dei lustrini e dei milioni. Con una buona prova di estensione e proiezione del mezzo, coniuga delicato lirismo e leggiadria scanzonata. Nitido e bilanciato anche il lato “soubrette” della protagonista. Lo squattrinato e ignavo conte Danilo, abituale frequentatore delle disponibili grisettes, ha l’eleganza di Fabio Armiliato che conferma, qualora ce ne fosse bisogno, gran disinvoltura scenica nei movimenti e nel gesto, assecondata dalla figura slanciata e fascinosa. Raramente lezioso e affettato, con agilità e buona intonazione, lavora di chiaroscuro con malizioso savoir-faire galante. Sicuro nell’emissione, con bel timbro e pulizia di fraseggio, abbozza dolce intimità nel duetto “Tace il labbro” e non nega accento frivolo e guascone nell’iniziale sortita “Vò da Maxim”. Il baritono Armando Ariostini è un barone Zeta troppo impegnato nelle questioni del proprio ufficio da preoccuparsi delle protuberanze che gli spuntano in fronte: gradevole nei panni del nobiluomo e ambasciatore, sfodera una vivacità scenica e interpretativa capace di mascherare e compensare adeguatamente ben più di qualche cedimento vocale. Emanuele D’Aguanno è un Camille de Rossillon molto distinto: raffinato ed espressivo corteggiatore, si destreggia validamente negli accenti teneri e romantici del personaggio. Ed è ancora una volta il soprano Manuela Cucuccio, nei panni dell’esuberante Valencienne, moglie dell’ingenuo barone Zeta, a riservarsi grandi favori da parte del pubblico: nel novero dei pochi ad aver realmente compreso che di operetta trattavasi, è spigliatissima e poliedrica interprete di una “donna onesta” (a suo dire!) in cerca di evasione sentimentale. Sorprendente come, con scioltezza vocale ed agilità scenica, certi ruoli le calzino con naturalezza. Vivace, civettuola come sempre, talvolta esagera, ma lo fa con mirabile disinvolta sicurezza e notevoli doti attoriali; lo strumento vocale sicuramente è in ascesa e fa uno spettacolo a sé. Speciale menzione meritano le esuberanti caratterizzazioni di Riccardo Palazzo e Alessandro Vargetto, rispettivamente il visconte Cascada e Raoul de St.Brioche – pronunciare per credere – ben più di due macchiette che popolano una vicenda frivola ma caricature tratteggiate con sapiente stile pittorico. Con fluida presenza scenica e sicura emissione, nelle piacevoli sortite a loro concesse, sono i primi a divertirsi e, quindi, a divertire lo spettatore. Discorso analogo per la Praskovia di Sabrina Messina. Completano il cast le bizzarre coppie di coniugi formate da Gian Luca Tumino (Bogdanowitsch) con Valeria Fisichella (Sylviane), Salvo Fresta (Kromow) con Paola Francesca Natale (Olga), e Antonio Cappetta (colonnello Pritschitsch). Infine, il ruolo comico di Njegus, maldestro cancelliere dell’ambasciata, è stato consegnato all’amatissima vis comica di Tuccio Musumeci: deus ex-machina e narratore metateatrale, aiuta a sbrogliare gli intrighi amorosi e arruffiana il pubblico catanese con qualche inflessione siciliana. Già validissimo carceriere Frosch in ‘Die Fledermaus’, con i soliti brillanti tempi comici, strappa qualche risata. Senza nulla togliere al nostro Tuccio, l’ostinazione registica di prevedere nelle operette interventi comici con riferimenti alla Sicilia – spudorata captatio benevolentiae dello spettatore – risulta di un provincialismo disarmante e sono di impaccio al tentativo di sfruttare, con convinzione scenica, le rodate battute previste nel testo nonché le gag ideate ad hoc per lo spettacolo. Risultato: l’ironia resta superficiale, appena abbozzata e non riesce a superare l’intralcio dei cliché. Per ovvie ragioni, l’attore è stato dispensato dagli oneri canori previsti. Ma poco importa, Musumeci è idolo del pubblico catanese e raccoglie al termine meritati copiosi applausi. Sempre un piacere vederlo in scena.
UN SENTIMENTO CHE SI BALLA. Le grisettes Lolo, Dodo, Jou-Jou, Frou-Frou, Clo-Clo, Margot si esibiscono nell’immancabile acrobatico e provocante can can Galop infernal di Offenbach, accolto nel terzo atto per convenzione inalterabile, a ricreare il clima da café chantant parigino come se dirompessero fuori dalle litografie di Henri de Toulouse-Lautrec. Peccato, però, che la sparuta rappresentanza fosse esclusivamente femminile e gli abitini indossati – per quanto prevedibilmente scosciati – non fossero quelli tipici della danza. Il giovane corpo di ballo – che poco aveva ovviamente di soubrettes – fa quel che può sulle coreografie, risultando non troppo convincente nell’indebito trapianto offenbachiano, ma nulla in confronto alla scelta del direttore di farle cantare “Sì, noi siamo le signorine”. Alla fine, bontà loro, la ripresa del ritornello è stato riassegnato al Coro. Quest’ultimo, istruito da Gea Garatti Ansini e costantemente posizionato in fondo alla scena, è protagonista di una rapida e valida prova, distinguendosi soprattutto nelle due scene che vedono protagonista la compagine maschile. L’Orchestra, sotto la direzione di Andrea Sanguineti, ha eseguito musica parzialmente monocroma, spesso fiacca o tutto forte, con qualche dilatazione o corsa di troppo, a tratti briosa e leggiadra, ma comunque plusvalore di uno spettacolo che, pur tuttavia, è andato in crescendo: tralasciando qualche lungaggine del primo atto, ha chiuso in modo soddisfacente gli ultimi due, che hanno infatti – parzialmente – riscattato la serata. Non nuoce, ad ogni modo, allo scorrere fluido dell’operetta e alla definizione dei rapporti delineati dalla vicenda. Tra composizioni accattivanti, motivetti orecchiabili, la trascinante marcetta “È scabroso le donne studiar” e il riscatto muliebre “È impossibile l’uomo cambiar”, l’operetta si avvia verso un godibile finale. Basta un giro di valzer tra la ricca vedova e il conte Danilo a suggellare il rinnovato sentimento. Il valzer, del resto, non è una danza ma un sentimento che si balla.