L’Onu rompe gli indugi e sfida apertamente Donal Trump. Il messaggio è di quelli chiari e ineludibili. I Paesi che hanno votato contro Trump su Gerusalemme capitale di Israele hanno dato uno schiaffo politico al presidente americano e i segnali sono quelli di una fronda internazionale nei confronti del Tycoon e delle sue politiche votate all’unilateralismo decisionale. È una condanna a larghissima maggioranza quella inferta sulla decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di spostare l’ambasciata nella Città santa e il confronto ha avuto in questo caso come terreno non uno scenario qualsiasi ma l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Su 193 Paesi, ben 128 hanno votato a favore della risoluzione presentata da Turchia e Yemen e appoggiata in massa dai Paesi arabi, musulmani ed europei. Nove i Paesi contrari (oltre a Usa e Israele anche Togo, Micronesia, Nauru, Palau, Isole Marshall, Guatemala e Honduras) e 35 gli astenuti (tra cui Canada e Australia). L’Italia si è espressa a favore, schierandosi con 25 Stati membri dell’Unione europea, inclusi Francia, Germania e Regno Unito. Sì anche da Paesi alleati degli Usa come il Giappone e la Corea del Sud.
UNA MINACCIA PER IL MEDIO ORIENTE. Nel testo non vincolante ma dal valore altamente simbolico la mossa di Trump viene considerata – come hanno spiegato i relatori – «una minaccia per la stabilità del Medio Oriente e per la pace e la sicurezza internazionali». Anche l’Italia si è espressa a favore, schierandosi con 25 Stati membri dell’Unione europea, inclusi Francia, Germania e Regno Unito. Sì anche da Paesi alleati degli Usa come il Giappone e la Corea del Sud. Mai come oggi, dunque, Trump appare isolato nel mondo. La prospettiva che si delinea è quella di iniziare a mettere in difficoltà Trump sul piano della credibilità in politica estera ancor prima che in casa propria, e la strategia non troppo velata è quella di “minare” il terreno attorno al Tycoon per convincere gli americani stessi che il loro presidente li ha isolati e sacrificati sull’altare di politiche che non vengono condivise dagli altri Stati. Trump è convinto che il tradizionale patriottismo americano basterà a non far trasparire nel suo Paese il clima di sfida con la comunità internazionale, e c’è poi anche la riforma fiscale che ha abbassato al 21% la pressione sulle imprese. Roba che in Italia appare fantascienza solo ad immaginarla, anche se poi si dovrà vedere se questa mossa scioccante determinerà più benefici o più contraccolpi.
L’IRA AMERICANA. Di sicuro c’è che l’ira della Casa Bianca è forte e tangibile, sintetizzata dalle parole durissime pronunciate dall’ambasciatrice americana al Palazzo di vetro, Nikki Haley: «Ce ne ricorderemo», la sua minaccia nemmeno tanto velata, dopo che ieri direttamente Trump aveva agitato lo spettro del taglio dei fondi sia all’ Onu e alle sue agenzie sia ai Paesi schierati a favore della risoluzione. «L’America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme perché è la cosa giusta da fare. E nessun voto ci farà cambiare idea. Ma questo è un voto che gli Stati Uniti terranno bene a mente», il monito della Haley, che ha parlato di «mancanza di rispetto» verso gli Usa, principali contributori delle Nazioni Unite. «Se i nostri investimenti falliscono, non portano risultati – ha aggiunto – allora abbiamo l’obbligo di destinare le nostre risorse ad altri obiettivi più produttivi». Alle porte del 2018 il voto dell’Assemblea generale è destinato ad aprire una divaricazione netta e dai riflessi indecifrabili in vista dei prossimi mesi, quando sulla presidenza Trump penderà la spada di Damocle del Russiagate.