È successo di nuovo, un festival dell’idiozia e dell’orrore che non esita a scambiare i luoghi che sono stati teatro di un dramma per mete turistiche come tante altre. Lo chiamano “turismo dell’orrore” ed è, purtroppo, una pratica assai diffusa nel nostro Paese. L’Hotel Rigopiano, sito vicino al Comune di Farindola, si è trasformato in una tomba di ghiaccio e detriti per innumerevoli persone che lo avevano scelto per passarvi le ferie di fine anno nel 2017. Ultima di una lunga serie di scenari dell’orrore, della struttura sono rimaste soltanto un cumulo di macerie immerse in un bosco, ad eccezione di alcune zone come la Spa che si sono invece salvate dalla totale distruzione. Il luogo in questione, così come tanti altri prima di esso (pensiamo ad esempio al Comune di Avetrana o all’isola del Giglio), è oggetto da diverso tempo di un malsano pellegrinaggio, un perverso voyeurismo dimentico del dolore dei familiari di coloro che vi hanno perso la vita e irrispettoso dei canoni della decenza e della dignità umana.
UN FENOMENO PREOCCUPANTE. L’episodio di due giorni fa è l’ultimo di una lunga lista di gite e scampagnate organizzate per visitare l’Hotel Rigopiano che fu teatro della più grave tragedia d’alta quota in Europa dal 1916 e dal 1999. Come quando un gruppo di 8 o 9 persone vi si introdusse nel giugno scorso con tanto di bambini al seguito. Uno degli adulti rimase addirittura ferito alla testa per il suo macabro curiosare tra rovine e lamiere. Che cosa porta tante persone a non rendersi conto di stare gozzovigliando su un terreno che ha visto sogni, speranze e amori spegnersi da un momento all’altro o dopo una lunga e soffocante agonia patita sotto la valanga? Alcuni sociologi tendono ad incolpare soprattutto la diffusione dei social network e di una cultura dell’ostentazione che a questi ultimi si lega. Tuttavia, è giusto ricordare che una simile fenomenologia esiste da sempre e coinvolge l’Italia spesso in misura maggiore che in altri Paesi. Non sarà forse colpa di uno scadimento umano e culturale che si ravvisa da decenni anche nella vita pubblica italiana? Un deficit educativo in cui sono spesso le generazioni più mature a dare un cattivo esempio che rischia di propagarsi a macchia d’olio anche alle più giovani. Un altro particolare desolante riguarda l’impossibilità per il Comune di Farindola di garantire la custodia dei luoghi in questione, circostanza che ha obbligato di fatto il comitato delle famiglie delle vittime del Rigopiano ad offrirsi volontario per organizzare delle ronde al fine di tutelare il rispetto della memoria dei propri cari.
UNA PASQUETTA CHE HA FATTO DISCUTERE. Nonostante i parenti delle vittime del Rigopiano fossero ormai tristemente abituati agli imbecilli di turno che si introducono nei luoghi del disastro per scattare qualche selfie demenziale, di certo nessuno si sarebbe aspettato di veder arrivare un folto gruppo di turisti nel giorno di Pasquetta mentre si pregava in memoria di chi ha perso la vita a causa della furia della natura e della mancanza di organizzazione delle istituzioni italiane. Eppure è proprio quello che è accaduto. Tra un pic-nic ed uno scatto con lo smartphone c’è stato addirittura qualcuno che si è portato via un pezzo di muro o un detrito trovato lungo il sentiero a mo’ di souvenir. «Nessuno che abbia portato un fiore o acceso un cero, nessun genitore che abbia spiegato ai figli che lì 29 persone sono morte per colpa dell’uomo», ha dichiarato il comitato dei parenti delle vittime. Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, fra l’altro indagato insieme ad altre persone per il disastro del Rigopiano, con una dura nota rivolta ai media: «Faccio un appello ai media – ha detto Lacchetta – per aiutarci a prevenire questo fenomeno. Per noi è difficile gestire l’ordine pubblico, ma qui si manca di rispetto alle vittime e ai familiari. È vero che i prati ai lati delle macerie da sempre sono stati teatro di scampagnate e picnic, e io li ho vietati, ma qui si va dentro le rovine ed è cosa diversa». In questa vicenda si è decisamente passato il limite, quello rappresentato dalla spettacolarizzazione di drammi e tragedie. È la follia da social-ebeti, quella pratica che stiamo osservando in luoghi che avrebbero bisogno di una sola condotta: il silenzio. Le scene riprovevoli cui abbiamo assistito lo scorso 2 aprile sono il plastico esempio di come si sono ridotti uomini e braccia, occhi e pollici ormai sempre più incollati a smartphone e tablet. Mentre restano in disordine anime e neuroni.