Non è certamente un invito al turpiloquio nei confronti del capo, ma una sentenza della Cassazione stabilisce che non si può licenziare nessuno perché su una chat, o su una mailing list, scrive parole pesanti sull’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora. Dunque, anche nel caso in cui pervenga al datore di lavoro una copia di una schermata di insulti a lui diretti, è da «escludere» ogni forma di «utilizzabilità» del contenuto di tale conversazione. «I messaggi — afferma la Suprema Corte — che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto le chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile».
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I FATTI. Così ha conservato il suo posto, di guardia giurata a Taranto, un dipendente della “Cosmopol” che nel gruppo Facebook del sindacato aveva apostrofato con epiteti poco carini l’amministratore delegato della società. In primo grado, il Tribunale di Taranto aveva confermato il licenziamento della guardia giurata, ma poi la Corte di Appello di Lecce, nel 2016, lo aveva dichiarato illegittimo ordinando alla società di reintegrare il dipendente e di procedere al pagamento di dodici mensilità di stipendio e al versamento dei contributi. Contro il verdetto la “Cosmopol” ha infruttuosamente fatto ricorso in Cassazione.
LA SENTENZA. Per i giudici della Suprema Corte i messaggi, se inoltrati unicamente a un gruppo o ad una chat chiusa, vanno considerati alla stregua della corrispondenza privata. «L’esigenza di tutela della segretezza delle comunicazioni – si legge nella sentenza – si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservate agli aderenti ad un determinato gruppo di persone, alle newsgroup o alle chat private». La Cassazione esclude, dunque, l’intento denigratorio per quello che viene considerato semplicemente «uno sfogo in un ambiente ad accesso limitato».