«Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi». Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. «Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re». Gli occhi ripresero a sorridere. «Per il Re, certo, ma per quale Re?». Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Abbracciò lo zio un po’ commosso. «Arrivederci a presto, Ritornerò col tricolore».
In una dilatata percezione del tempo ci sono eventi che inconsapevolmente si tende a collocare in un’epoca più remota. Avviene anche per alcuni classici. Appena sessant’anni fa, nel novembre del 1958, in casa Feltrinelli vedeva la luce “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. La genesi editoriale di quello che sarebbe poi stato considerato un capolavoro della letteratura italiana è notoriamente caratterizzata da un iter tortuoso e tormentato. Tomasi era noto agli addetti ai lavori sin dall’estate 1954, quando, abbigliato con abiti scuri alquanto démodé, si presentava a San Pellegrino Terme per accompagnare un cugino poco più giovane e altrettanto sconosciuto, il barone Lucio Piccolo di Calanovella: si teneva lì un convegno che prevedeva l’incontro tra alcuni giovani poeti con altri già affermati; e Piccolo, nei mesi precedenti, aveva inviato a Montale un plico di nove poesie male affrancato al punto che il destinatario si era visto costretto a pagare 180 lire di tassa. Montale rimase impressionato dai componimenti a tal punto da convocarlo nella località lombarda al centro della Val Brembana, dove soggiornavano, tra gli altri, anche Bellonci e Cecchi. Seduto a un tavolo del caffè Mazzara di Palermo, all’inizio della primavera 1956, Lampedusa avrebbe quindi cominciato a dettare i primi capitoli de “Il Gattopardo” a un appassionato allievo delle sue lezioni private di letteratura inglese – Francesco Orlando – che batteva a macchina in quattro copie nello studio del padre avvocato. Il 24 maggio 1956 Lucio Piccolo, che aveva appena pubblicato i “Canti barocchi” con prefazione di Montale, inviava al conte Federici, funzionario della Mondadori, una versione parziale del romanzo in quattro parti. In piena estate Orlando batté ancora due parti del libro, ambientate a Donnafugata, che Piccolo avrebbe poi fatto pervenire il 10 ottobre allo stesso Federici.
UN ROMANZO RIFIUTATO. Il romanzo, tuttavia, non corrispondeva ai canoni del ‘culturalmente corretto’ allora – e non solo allora – imperante, e il manoscritto fu rispedito al mittente, in quanto bollato come non pubblicabile sia da Mondadori sia da Einaudi. In ambedue i casi con la regia nemmeno poi tanto occulta di Elio Vittorini. Fu Fausto Flaccovio a farlo pervenire al direttore dei ‘Gettoni’, che in una lettera del 2 luglio 1957 manifestava che l’opera era squilibrata nelle parti, prolissa, schematica e affrettata nel finale. A posteriori avrebbe detto che si trattava di un romanzo tradizionale, che usciva dal progetto sperimentale della collana. Per Mondadori il manoscritto aveva, invece, ricevuto i giudizi negativi di tre supervisori: il coordinatore, lo stesso Vittorini, aveva espresso le sue riserve pur chiedendo all’autore di inviarlo nuovamente dopo una revisione, ritenendolo comunque «pregevole e commercialmente valido». La vicenda della genesi editoriale non fu tanto lineare quanto abitualmente la si sintetizzata, ma essenzialmente l’opera veniva tacciata di obsolescenza, non solo per lo stile (un po’ vecchiotto, ottocentesco) ma anche – e soprattutto – per il contenuto: una volgarizzazione di Proust, invisa alla critica per il disilluso personaggio dell’aristocratico di un tempo, per il poco edificante sfondo dell’annessione del Sud vista come eterno ritorno dei furbi, per l’affermazione del predominio politico delle “iene” e degli “sciacalli”, per il trasformismo e il suo rifiuto etico. Insomma, una congerie di temi scottanti che conferivano al complesso un’inquietante aura di destra. In un’intervista al Giorno, Vittorini ribadiva così il lapidario giudizio, anche dopo la fortunata pubblicazione postuma del romanzo. Sostanzialmente dello stesso tenore furono gli strali di tutto il milieu culturale di sinistra: Palmiro Togliatti, Mario Alicata, Umberto Eco, Gianfranco Contini, solo per citarne alcuni. Fatto sta che Tomasi, duca di Palma, undicesimo Principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e Grande di Spagna, non ebbe la soddisfazione di vederlo libro a stampa. Morì il 23 luglio del 1957, poco dopo aver ricevuto il secondo rifiuto di Vittorini.
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LA FINE DI UN MONDO. Nato a Palermo nel 1896, cresciuto in gran parte all’estero e legato alla baronessa lettone Alessandra Wolff Stommersee, Tomasi aveva letto in originale Stendhal e Keats, Racine e Blake, Shakespeare (i Sonnets quasi uno per uno), ma anche Eliot, Joyce e Virgina Woolf, non amava l’opera, mal digeriva le patrie lettere di Carducci e non pativa l’Ariosto. E non poteva che essere concepito un romanzo scomodo, refrattario alle categorizzazioni di genere, dirompente perché s’innesta nella mancata metabolizzazione da parte degli italiani del Risorgimento e di un’Italia inesorabilmente scissa nella frattura tra Nord e Sud. Alla verità ufficiale, cento anni dopo, Lampedusa oppone un testo che nasconde la verità della sua classe sociale di appartenenza, perdente, seppellita sotto le palate di terra che il tempo e i tanti Sedara avevano lasciato cadere.
“Il Gattopardo” non è solo l’etica dell’immobilismo ma anche la lucida critica di una decadenza e della fine di un mondo. Tancredi aderisce ai moti rivoltosi, scoppiati a causa di una situazione politica assai compromessa. Il giovane argomenta allo zio le proprie intenzioni sostenendo che, affinché tutto resti com’è, è necessario che tutto cambi. Il motto apparentemente reazionario pronunciato dal giovane e assunto a morale del romanzo viene clamorosamente smentito: niente rimane com’è, tutto invece decade – perfino la memoria del prestigio familiare – e finisce come il cane Bendicò, prima imbalsamato e poi buttato via “in un mucchietto di polvere livida”.
IL MANIFESTO DELLA SICILIANITÀ racconta il declino di una classe sociale – la stessa dell’autore – attraverso un personaggio anch’esso interno a quel mondo. Ma non c’è alcunché di rassicurante. Solo una raffinata, sontuosa fabula funeraria, all’interno della quale il destino dei personaggi ha sempre connotazioni tragiche e si consuma veloce e amaro. Ambientata nell’epoca risorgimentale, sulla soglia infida di un tempo di radicali trasformazioni, l’opera racconta un convulso passaggio di consegne. L’affermarsi doloroso di un nuovo ordine politico, economico e sociale. Con le vicende di don Fabrizio Salina e della sua famiglia, l’autore non si limita però soltanto a narrare lo scacco subito dall’aristocrazia fondiaria siciliana – destinata all’abdicazione – o a dirci che la stessa viene spazzata via, d’un colpo, dalle trame accorte di una borghese rampante, le cui fila vengono a infoltirsi grazie ad uomini nuovi che hanno le fattezze dell’ineffabile Peppe Merda, non annoverato infatti dal Principe tra “quelle solite duecento persone che compongono il mondo”. È piuttosto la condanna senza appello contro il vacuo ottimismo che imperava a metà degli anni Cinquanta del Novecento e che, a intervalli più o meno ciclici, torna a sbandierare le «progressive e magnifiche» sorti dell’umanità. Contro quella «società di consumo» che distrugge con noncuranza i valori ‘preziosi’ del passato; che consegna il potere a una classe avida e ignorante, legata solo al culto del profitto. Sarà, infine, il nipote di quei Salina “rabbiosi e superbi” – Fabrizietto – a sfilare per le celebrazioni dello sbarco dei Mille davanti ad un cartello con tanto di scritta “Salina” a “lettere di scatola”. Nel Maggio 1910, dopo la morte di Tancredi, la villa è di proprietà di Concetta, Caterina e Carolina. Le tre donne, ormai anziane, ricevono la visita dell’Arcivescovado per la verifica dell’autenticità delle reliquie della Cappella. Ricevono, inoltre, la visita di Angelica, ma la Concetta presentata dall’autore è ormai fredda, rassegnata e impassibile. La donna ha solo spenti e tristi ricordi del passato, contenuti in alcuni bauli e ben lontani dallo splendore di un tempo.
Sarà forse vero che, per la sua complessità, nei confronti dell’opera vige ancora un latente pregiudizio, fondato su una cieca fede nella letteratura pedagogica di sinistra. Ma con sguardo scettico “Il Gattopardo” è un classico tutt’altro che reazionario, del quale nessuno può ridimensionare la portata.
![Il Gattopardo nella rappresentazione cinematografica di L. Visconti](https://pickline.it/wp-content/uploads/2018/11/Photo-Le-Guepard-Il-Gattopardo-1963-23.jpg)
IL SUCCESSO CINEMATOGRAFICO. Solo in seguito a una fortuita sequela di passaggi di mano, all’inizio del ‘58 il manoscritto finì presso Elena Croce, che lo segnalò a Giorgio Bassani, da poco direttore della collana ‘I Contemporanei’ di Feltrinelli, che – letto il manoscritto – telefonò all’amico Mario Soldati verso mezzanotte per chiedergli di raggiungerlo subito. Fu proprio l’autore de “Il giardino dei Finzi-Contini” a coglierne subito la portata letteraria e a curarne personalmente la prima edizione, di cui firmò anche la prefazione. Raccontò Soldati: «Mi precipitai da lui, lo leggemmo tutto, subito, e insieme. E decidemmo che era un capolavoro». L’anno seguente il romanzo edito postumo si aggiudica il premio Strega, per le oltre 100.000 copie vendute, attestandosi come caso letterario internazionale: tradotto in numerose lingue, in russo, polacco e perfino in coreano, nel ’63 la sua fama fu eternata dal kolossal cinematografico per la regia di Luchino Visconti, con Claudia Cardinale, Burt Lancaster, Alain Delon e Paolo Stoppa. Le location di Villa Boscogrande, di Ciminna e di Palazzo Chigi ad Ariccia restituivano, così, al meglio la magnificenza del casato dei Salina, mentre i saloni di Palazzo Gangi ritraevano una memorabile scena del ballo tra Angelica e don Fabrizio sulle note del celebre Valzer Brillante di Verdi. La colonna sonora di Nino Rota – tra Mazurka, Controdanza, Polka, Quadriglia e Galop – ripercorre i principali esempi dei balli dell’epoca in un magnifico ed eloquente tripudio in sottofondo per quasi tutta la durata della pellicola. Un successo direttamente proporzionale, consacrato da una Palma d’oro al Festival di Cannes, da un David di Donatello a Goffredo Lombardo e dal Nastro D’Argento alla fotografia di Giuseppe Rotunno, alle scene di Mario Garbuglia e ai costumi di Piero Tosi. Senza contare poi le nomination, dal Golden Globe agli Oscar. Non fu certo un caso che nonostante la collocazione politico-culturale – o forse proprio per una certa vena non conformista nei confronti dei dettami dell’ortodossia di partito che già al tempo si andava delineando – nel 1957 Feltrinelli aveva piazzato un altro grande colpo editoriale, ricercando sempre sulla medesima lunghezza d’onda: il Dottor Zivago di Pasternak, in prima mondiale, storia d’amore sullo sfondo della rivoluzione comunista, guardata con una certa dose di diffidente distacco. Rifiutato dalla rivista Novyj Mir nel 1956, la qualifica di “reazionario” attribuita all’autore finì per ostare alla pubblicazione in URSS fino al 1988. Anche la popolarità di Zivago – che al suo autore valse il Nobel nel ’58 – fu amplificata dal successo della trasposizione con Omar Sharif e Julie Christie.
L’ALBA DI UNA NUOVA ERA. Ma tornando alla singolare apertura editoriale nel panorama culturale italiano, dominato dalle prescrizioni dell’ortodossia comunista, lukacsiana e gramsciana, cosa ci faceva un siffatto prodotto nell’Italia post-bellica? Su tutto il fronte l’intellighenzia era di stampo progressista. Risulterebbe esageratamente riduttivo definire l’opera come un romanzo nostalgico scritto da un uomo che è rimasto ancorato a una Sicilia che ormai non c’è più. Certo, l’affinità che lega l’autore al contesto potrebbe ingenerare il sospetto di un romanzo memorialistico, ma si tratterebbe di un approccio a dir poco superficiale. Le vicende coprono un lasso di tempo compreso tra il maggio 1860 e il maggio del 1910; ambientate nel palermitano e nei suggestivi scenari del feudo agrigentino di Donnafugata, Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice. La Sicilia, all’alba di una nuova era: è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi. Un po’ come il Consalvo Uzeda de “I Viceré” di De Roberto, Tancredi è un uomo ambizioso che intende mantenere il ruolo di prestigio che i suoi natali gli hanno conferito, tradendo solo apparentemente la classe sociale a cui appartiene. Persino il Cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuole, rappresentante del neonato Regno e recatosi in Sicilia per offrire a don Fabrizio la carica di Senatore, prende atto dell’esigua speranza riposta dal Principe nella possibilità di cambiamento in un luogo così tante volte colonizzato come la Sicilia: nelle parole del disilluso aristocrastico non c’è apologia del trasformismo né rimpianto per il passato, ma solo la semplice decisione di rimanere dalla parte dei vinti. «In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso. […] E’ il sonno che i siciliani vogliono ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto. […] I siciliani non vorranno mai migliorare, per la semplice ragione che credono di essere perfetti. La loro vanità è più forte della loro miseria».
L’IMPRONTA SUL LESSICO. Il romanzo, lirico e critico insieme, ben poco concede all’intreccio e al romanzesco tanto cari alla narrativa dell’Ottocento. L’immagine della Sicilia che invece ci offre è viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica e politica contemporanea. «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalletti e pecore continueremo a crederci il sale della terra». Le parole del Principe hanno finito per lasciare il segno nella lingua italiana, anche con esiti paradossali quali “gattopardesco” e “gattopardismo”. Per secoli il termine “gattopardo” si è librato nel grande sciame di tecnicismi che avvolge il nucleo del vocabolario comune italiano a designazione di uno dei tanti felini – il Felis leptailurus serval – diffuso sulle coste settentrionali dell’Africa, proprio di fronte a Lampedusa. E nell’isola la belva era arrivata in immagine per ornare lo stemma della nobile casata. Il termine sarebbe rimasto confinato nell’ambito della zoologia o dell’araldica se non fosse stato prontamente fissato nel vocabolario comune a definizione di «chi si adatta a novità politiche e sociali per mantenere i propri anteriori privilegi». Ma è lo stesso don Fabrizio a legare se stesso a un destino di rassegnazione e di mero illusorio orgoglio per quanti continueranno a credersi il sale della terra e che invece non riusciranno mai ad esserlo.