Oggi scrivo su Abolire la scuola media?, un libro di Cesare Cornoldi e Giorgio Israel. Sebbene sia stato pubblicato nel 2015 è attualissimo. Nella prima parte Cornoldi parte dall’assunto che la scuola media in Italia e in molti paesi del mondo (p.16) non funzioni. Analizza quindi le ragioni della crisi e di un malessere sempre più generalizzato. Secondo lui gli insegnanti (pp. 27-28) della scuola media hanno una scarsa preparazione psico-pedagogica. È perversa l’idea – sostiene Cornoldi- di un insegnante che si consideri esperto della disciplina più che di insegnamento e di processi di apprendimento (p. 30).
Il modello italiano, inoltre, è di natura enciclopedico con una varia struttura disciplinare: nel 1979 (p. 32) la scuola media prevedeva 8 materie + religione, nel 2003 sono diventate 11+ religione+ 6 educazioni, e tutte le discipline sono state messe sullo stesso piano disciplinarista. Sulla base di queste osservazioni Cornoldi avanza la sua proposta di abolizione della scuola media inserendola in quella che è il ciclo della scuola primaria (da cui dovrebbe riprendere anche il modello). Prospetta una tipologia di insegnante non come esperto della propria disciplina ma delle modalità di apprendimento (p. 43), con uno spostamento del ruolo dell’insegnamento dall’asse disciplinare a quello pedagogico-psicologico. Da qui la sua proposta di meno insegnamenti, meno percorsi strutturati, meno libri di testo, voti, ecc. (pp. 44-45), con un ridimensionamento massiccio anche dei programmi e dei docenti (pp. 52-53).
Giorgio Israel critica, invece, l’approccio di molti pedagogisti e psicologi relativamente al problema dell’insegnamento. Parla di ‘pedagogia della paura’ e di didattica regressiva (di tali idee imputa la responsabilità a Piaget, il cui pensiero è stato confutato anche dai suoi discepoli) basata su modelli pedagogici teorici di natura scientista, su un’immagine di bambino costruita a tavolino, che non ha nulla a che fare con la realtà (p. 73).
Israel sostiene che il vero buco nero della scuola italiana non è la media ma quella elementare (p. 74). Prende posizione in maniera dura contro pedagogisti e psicologi (p.75) che hanno patrocinato con insistenza l’ideologia secondo cui le materie (o discipline) devono essere sostituite ‘da una sorta di attività pratiche in cui resta poco o nulla dell’antica suddivisione per discipline’. Psicologi e pedagogisti (ai quali spetta il riconoscimento delle loro competenze) sentenziano su questioni (ad esempio quelle matematiche) su cui loro stessi ammettono di ‘avere una spolveratura di conoscenze’ o di ‘non averne affatto’ e si propongono ‘come maestri della discalculia’ (p. 76).
La critica di Giorgio Israele colpisce anche la scuola della miriade di attività alternative, che non affonda grazie a i buoni insegnanti (p. 79) che non si assoggettano ‘alle prescrizioni burocratiche, ai protocolli ministeriali approfittando del residuo spazio di libertà offerto dall’aula quando la porta è chiusa’.
Le statistiche internazionali – osserva – non hanno il carattere di oggettività che viene loro attribuito, e tutte le critiche che vengono mosse agli organismi che le producono vengono puntualmente ignorate (p. 79). La scuola media – secondo lo studioso – esprime un approccio che ha una sua ‘indiscutibile coerenza’ (p. 81), cioè di tipo disciplinare, che va contro quello imposto alle primarie con le varie sperimentazioni e riforme che ci sono state negli anni. Gli insuccessi scolastici a cui vanno incontro gli alunni alle medie sono dovuti – afferma – a come è stato indirizzato l’insegnamento nella scuola dell’infanzia. Non bisogna, quindi, fidarsi ciecamente delle statistiche ma bisogna esaminare dal punto di vista fenomenologico ciò che accade agli studenti, cioè che i soggetti non attrezzati dalla scuola alla fatica sono esposti a vari tipi di esiti, fra cui l’insuccesso.
Per Israel la questione è culturale. Il problema è se si vuole costruire una scuola in cui non esiste più una struttura disciplinare, o crediamo invece che sia indispensabile. Egli ritiene che non si può prescindere dall’approccio disciplinare (p. 84). Ciò non significa, però, non riconoscere le necessità di riforme (ad esempio una revisione che impedisca il mero nozionismo, l’introduzione delle tecnologie informatiche per lo studio delle lingue, ecc.). In ballo, secondo un modello culturale che si sta diffondendo a livello internazionale, c’è la riduzione della conoscenza (in virtù della possibilità dell’accesso all’istante grazie alle rete a tutto il sapere) a informazione: tale idea è sbagliata e ‘apre a forme di imbarbarimento culturale’. C’è il rischio che gli insegnanti – continua Israel con una critica corrosiva al sistema ministeriale – siano ridotti ‘a passacarte passivi’ (p. 107), e che una nuova alleanza nel sistema scolastico italiano fra ‘tecnoburocrazia’ ed ‘«economisti della scuola» – per lo più statistici ed econometrici che non hanno mai messo piede in una classe’ (p. 107) riduca ‘l’istruzione a formazione di forza lavoro e le pratiche di insegnamento alla «somministrazione» di test e quiz’. In gioco c’è – secondo lo studioso- il modello universalistico dell’istruzione che l’Europa ha proposto dalla fine del 1700, e che è soggetto in tutto il vecchio continente a una opera sistematica di distruzione (p.104).
A una visione umanistica dell’istruzione si sta sostituendo una disumanizzante ‘che concepisce gli studenti come soldatini in formazione per l’esercito della forza lavoro’ (p. 108). Che fare? Per prima cosa – conclude Israel – bisogna difendere la scuola a tre cicli, poi è necessario riscoprire il valore dell’ora di lezione (cita su tale tema un libro di Massimo Recalcati) e il rapporto fra maestro e allievo (come insegna autorevolmente Hannah Arendt). Nell’ora di lezione un ragazzo ‘può trovarsi di fronte a un autentico maestro capace di accendere la scintilla dell’amore per la conoscenza’ (p. 108).