Stasera leggo Edith Bruck. Mi porta con il suo ritmo narrativo, secco, incisivo, tipico di chi ha scavato a fondo nelle cose, per le strade di Roma, e poi nella stanza più grande della sua casa, lì dove spicca l’azzurro del cielo, il verde di un olmo, i tetti che l’avvolgono come in un grembo. Con la poetessa, anch’io, rimetto insieme ‘pezzi di esistenza’, ripercorro una vita non mia, ne assaporo a tratti la consistenza.
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Mi sembra di vedere l’interno della casa, la ‘parete nel fondo’ e poi la Menorah che ha ricevuto da una parente non ebrea. Anch’io sono avvolto nella sua luce scura, e poi mi fermo sulle ‘bottiglie orientali’, realizzate da mani povere di chi viene dai paesi da ‘mille e una notte’, da una terra ferita dove c’è chi nel nome di Allah allaccia a una cintura dell’esplosivo e semina morte. La Menorah mi avvolge nella sua luce oscura: si contrae, si dilata, mi fa intravedere un’Italia (che non c’è più) in cui non ‘tutto era spettacolo’, la fragile speranza del dopoguerra che ha animato tanti uomini di costruire un mondo migliore. Poi fermo lo sguardo, quasi fossi io il protagonista-spettatore di questo viaggio, sullo scompartimento di sotto, dove ci sono i libri: la Cabbala, la Mistica ebraica, Servadio, Jung, Agostino, la Dickinson. Mi sento immerso in un mondo di specchi, di immagini riflesse, in cui spicca una foto, di una donna giovane, la poetessa, ‘accecata dal sole’, ignara della sorte che la attendeva. Era il 1943 (pp. 19/20).
Sono sempre nello spazio della casa, piena di oggetti-simbolo di una vita. Come per magia tutto evoca il mondo esterno, il tempo della vita, di un’esistenza segnata da grandi dolori ma anche dalla gioia, i gesti semplici, quotidiani, i mercatini domenicali. Incise in foto ci sono le immagini della suocera (di ottocentesca memoria), quella forse del marito ad un anno, e poi quelle dei figli piccoli della nipote. Poi seguono i gatti finti, e un’altra fotografia della Bruck: lei ritratta come giovane mamma dei gatti, in una posa così intensa e pura che le fa male a guardarla. Le sembra di vedere un essere che non ha vissuto, che le somiglia, ma sul cui volto non c’è alcun segno né del passato né del futuro (p.23). È tutto ciò che resta di ‘un’estate felice dietro le dune deserte’, ma anche di un’Italia che non c’è più, di un pezzo di paese che se ne è andato con Moravia , mentre il presente incombe con la sua drammaticità, con i lutti che insanguinano ancora oggi il mondo, spesso accecato dall’assurda pretesa dell’Occidente che la democrazia si possa esportare (p. 25):
[…] Se n’è andato con Moravia
anche un mio pezzo d’Italia
e tra non molto il mio nome
i miei libri
il mio vissuto
non diranno più niente a nessuno
un testimone diretto
meglio che cada nell’oblio
come i crimini stessi
dei contemporanei
che nulla hanno cambiato
mani omicide
si abbattono sempre
in qualche angolo del mondo […]
Eccomi all’ultima parte di questo viaggio-racconto: parla del ricovero in in ospedale, della sensazione irreale di rivivere quanto molti anni era accaduto ad Auschwitz. Poi i versi finali, intensissimi, di alto valore lirico, che come una meditazione-preghiera, ci consegnano l’esperienza umana del dolore ma anche del sentirsi ogni giorno per miracolo restituiti alla vita (p. 66):
Nel silenzio della notte
vorrei non sentire battere il cuore
che secondo l’udito
cambia spesso il ritmo
e quando mi sveglio
ogni giorno un miracolo
so che m’è stata restituita la vita
e sta per tornare anche bella
quando il respiro è libero
quando il dolore mi dimentica
quando compro i fiori
il pane
lavo i piatti
cucino
scrivo
dormo piede contro piede
dormo mano nella mano
quando guardo la Menorah in cima alla libreria
che veglia la stanza.