Il Cinema piange Bernardo Bertolucci, suo figlio prediletto, sognatore, idealista, innovatore. Poeta, documentarista, regista attento ai talenti emergenti, produttore, polemista, sempre in viaggio tra i continenti. Pur costretto da molti anni su una sedia a rotelle, definita come «la punizione per l’abuso dei movimenti di macchina», non aveva trascurato la prorompente vitalità e l’abilità di interpretare e raccontare lo spirito del suo tempo. Respirava, d’altronde, aria di cinema già in casa e i cortometraggi in 16 mm come “Morte di un maiale” e “La teleferica”, girati a Casarola di Parma sull’Appenino emiliano, erano precisi sintomi di quell’esordio – con la produzione di Tonino Guerra – che sarebbe stato “La commare secca”, su soggetto e sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini, conquistandosi appena due anni più tardi, con il manifesto “Prima della rivoluzione”, la fama incontrastata di miglior autore di una nuova generazione di cineasti in cui l’ispirazione creativa e gli eccessi andavano di pari passo con l’impegno civile. Dopo anni di sperimentazione tra il Living Theatre, Sergio Leone (insieme a Dario Argento firma il soggetto di “C’era una volta il west”) e i discorsi esistenzialisti e sessantottini di ‘Partner’ (con Stefania Sandrelli e tratto da “Il sosia” di Fedor Dostoevskij), B.B. si impone nel 1970 con due capolavori: “Strategia del ragno”, sofisticato gioiello ispirato a Borges, e “Il conformista”, dal romanzo dell’amico Alberto Moravia. Quest’ultima angosciosa, matura, compiuta e coerente parabola di una vita e di un’epoca sbagliata scompone con stile personale il nauseabondo e sprezzante fascismo quotidiano, consacrata da una candidatura all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale.
FILMOGRAFIA. È il 1972 e “Ultimo tango a Parigi” con un dolente Marlon Brando e Maria Schneider diventa sinonimo di un ciclonico scandalo, con la trasgressione sessuale come unica risposta – brutale e discutibile – all’alienazione della vita contemporanea: accolta entusiasticamente dal pubblico, la pellicola del dramma erotico esce brevemente in sala, per poi essere sequestrata e mandata al rogo nel ’76 con sentenza definitiva. La complessa vicenda censoria e giudiziaria è storia a se, con il regista condannato a 4 mesi per oscenità ma premiato con un Nastro d’Argento e una candidatura all’Oscar come miglior regista. Si fa più intimo e con “La luna” racconta l’ambiguo e controverso rapporto – ai limiti dell’incesto – di una madre e di suo figlio adolescente, seguito da ‘La tragedia di un uomo ridicolo’, storia di avidità provinciale e rapimenti che vale a Tognazzi un riconoscimento a Cannes. Coronamento della carriera sono quindi le nove statuine de “L’ultimo imperatore” con Peter O’Toole, che fa anche incetta di BAFTA, César, David, Golden Globe, European Award e Nastri d’Argento. Concluderanno la trilogia esotica il viaggio africano – tragico ed elegante – “Il tè nel deserto” (1990) con John Malkovich e lo spiritualismo di “Piccolo Buddha” (1993) con Keanu Reeves. Arriva il dramma da camera “L’assedio” (1998), tratto da un racconto di James Lasdun e storia di un’ossessione amorosa, precedendo “The Dreamers” (2003), ménage a trois di tre giovani ragazzi francesi che in pieno ’68 intrecciano scoperte erotiche, politica e cinefilia. Così italiano ma così internazionale, Bertolucci ci consegna infine “Io e te” (2012) dal romanzo di Niccolò Ammaniti. Palma d’oro onoraria al 64° Festival di Cannes, il visionario cineasta conclude la sua parabola umana nella casa di via della Lungara, nel rione di Trastevere a Roma. Dei magnifici e faraonici set in cui dispensava geniali intuizioni rimangono scatti fotografici meravigliosi, che lo ritraggono insieme con i compagni di lavoro, immerso nella grande illusione di cui era maestro. A noi piace ricordarlo per come ha raccontato cinquant’anni di storia in un omaggio poetico alla sua infanzia bucolica, al socialismo, alla cultura contadina e alla terra natia.
Il CAPOLAVORO. Ai comunisti “Novecento” – immenso documento cinematografico uscito nelle sale nel 1976, la cui gestazione durò quasi tre anni per poi monopolizzare il 29° Festival di Cannes, nel maggio di 40 anni fa – non piacque. Specialmente non piacque ai vecchi capi del PCI: da Giorgio Amendola a Pajetta, il partito rifiutò quel grande eterno capolavoro che, con le sue cinque ore e mezza, raccontava con mirabile lirismo e pregnanza storica la prima metà del secolo breve. Nel tentativo di proporre una storia tutta evolutiva delle vicende italiane post ventennio – al riparo da orrori, nefandezze o anche solo da spiriti primitivi di vendetta – l’antifascismo era tradizionalmente dipinto non solo come una pagina gloriosa di riscatto morale e avanzamento politico, ma anche come un’elegia eroica, accomunante e profondamente umana, ai limiti della redenzione cristiana. Era quindi facilmente reputata inconcepibile una rappresentazione cruda, tragica e persino crudele come quella che Bernardo Bertolucci, comunista fuori dagli schemi, aveva offerto con l’epica di un cast internazionale forse mai più replicato in una produzione cinematografica nazionale (Burt Lancaster, Donald Sutherland, Robert De Niro, Gérard Depardieu, Dominique Sanda, Alida Valli, Sterling Hayden, Stefania Sandrelli, Laura Betti). E così il partito, “il grande albero sotto cui ripararsi” – eccezion fatta forse per Pietro Ingrao – guardava con malcelato scetticismo un prodotto, bollato come “falso storico”, certo fuori dagli schemi propagandistico-zdanoviani cui era legato. Agrari e latifondisti processati dai contadini, vecchi fascisti linciati dai paesani, antifascisti amici di infanzia dei padroni. La Resistenza era tutt’altro. Il regista parmense, invece, ne dipinse un affresco storico indimenticabile che, con grandi prove attoriali e con tempi sempre serratissimi, imponeva anche sul piano storico – oltre che su quello letterario e poetico – un epos che non poteva essere scevro da passioni e da contraddizioni che prescindono censo e classe sociale. Ma Bernardo, cineasta sapiente e fedele ai collaboratori (dal montatore Kim Arcalli al fotografo Vittorio Storaro alla costumista Gabriella Pescucci), figlio di un grande poeta come Attilio Bertolucci, amico di Pier Paolo Pasolini (ne fu aiuto regista nel 60’ in “Accattone”), amato da Moravia, vicino a Elsa Morante, Cesare Garboli, Enzo Siciliano e Dacia Maraini, innamorato del bello e del lirico, del gusto per il melodramma, delle scene madri, dell’approccio mitico e popolare, della tendenza postmoderna a costruire con materiali preesistenti, tutto questo lo sapeva bene. E così, su una filmografia di sedici titoli, pur restando un autore straordinariamente visivo, ben cinque erano origine schiettamente letteraria.
Fu così, in buona sostanza, che la metafora di mezzo secolo con cui un titano trentacinquenne trasfigurava un melodramma familiare italiano favoloso – talmente massiccio da essere diviso in due atti – finiva per non convincere gli americani, che pensavano fosse un film comunista, e i comunisti, che non si riconoscevano. Il tema non era il conflitto tra classi sociali, il vero nemico era il fascismo. Sensibile agli umori del tempo e ad anni di cultura di sinistra imperante, in un ponte ideale tra il cinema hollywoodiano e il realismo socialista, narra la storia di tre generazioni diverse, che nascono e crescono sotto l’ombra del fascismo italiano prima e della lotta operaia poi, attraverso i parallelismi della famiglia borghese dei Berlinghieri proprietari terrieri e di quella contadina dei Dalcò, divisa tra l’estate dell’infanzia e adolescenza, il grigio autunno e l’inverno dell’ascesa e caduta del fascismo, e la primavera della rivoluzione promessa e poi negata: un’epopea della lotta di classe come motore dialettico delle cose e degli uomini (alcuni di loro fin dai nomi, come il “flagello” in camicia nera o la maestrina combattente che porta il nome di Anita). La scena si apre sul 25 aprile del 1945, il giorno della Liberazione dal nazifascismo, giorno in cui le contadine catturano il fascista Attila – violento e arrivista – e la sua compagna Regina mentre il giovanissimo Leonida tiene sotto il tiro di un fucile il padrone Alfredo Berlinghieri. Da qui ha inizio un interminabile flashback che dispiega naturalmente mezzo secolo di storia italiana, tra le righe della vita privata dei numerosi protagonisti, dall’infanzia di due bambini nati lo stesso giorno (Alfredo, erede dei padroni, e Olmo, figlio di padre ignoto e nipote del capocontadino) al suicidio nella stalla del vecchio Berlinghieri, alla tirannia del figlio Giovanni (Romolo Valli) nei confronti dei braccianti, proprio quando il fascismo è ormai giunto in quell’Emilia che per vent’anni cercherà di liberarsi dei padroni: ci riuscirà solo nel ‘45, quando il film si apre e quando proprio Olmo, che in giovinezza se ne era andato dalla tenuta per sfuggire alle guardie fasciste, tornerà per guidare i contadini nella rivolta contro la famiglia del vecchio amico. È il melodramma, cifra espressiva di tutto il cinema di Bertolucci, a farsi una delle principali dimensioni fondative del récit di “Novecento”: “Verdi è morto!” si sente gridare sulle note della sinfonia di “Rigoletto”, poco dopo i titoli iniziali in scorrimento su “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo accompagnati da quel capolavoro di scrittura che è “Romanza” di Morricone. Tributo al melodramma italiano di un testo storico-ideologico su cui costruire il respiro epico e quello intimista di un cinema che omaggia Visconti e Godard, passando per Griffith ed Ėjzenštejn.
Mantenendo inalterato un certo fascino da epopea paradigmatica e cruciale, per magniloquenza visiva e potenza di un racconto epico e allo stesso tempo estremamente intimo e personale, “Novecento” si lascia ancora ammirare, a 40 anni dall’uscita, soprattutto come un modello d’ipertrofia autoriale che la macchina cinema ha voluto e saputo permettersi. Con rara ricercatezza e straordinario lirismo, racchiude una crudele, incantata favola shakespeariana immersa nel ciclo delle stagioni naturali in un modo che non è stato ancora ripetuto. La Storia si sposa con quella dei possedimenti Berlinghieri; la Nazione si riflette nei campi della Bassa. Bertolucci, con brillante caratterizzazione dei personaggi, non trascura di prendere le parti di chi è vessato ma offre i tratti della rapacità alla generazione dei padri, lasciando dignità all’anziano interpretato da un Burt Lancaster che regalò la propria interpretazione recitando gratis. Il rapporto padre-figlio è dispiegato in quello più ampio tra vecchie e nuove generazioni: non a caso tutte le sequenze sono affreschi, ritratti di famiglia, e non a caso i due grandi patriarchi del film hanno una forte valenza simbolica, con Burt Lancaster e Sterling Hayden che sono anche il rimando paterno al grande cinema hollywoodiano ai quali il regista guarda nel momento in cui vengono a mancare i grandi esempi del cinema italiano (lo stesso Pasolini viene a mancare, ucciso proprio durante la lavorazione del film). Al pessimismo antropologico di Pasolini – che raccontava la trasformazione sociologica e culturale dell’Italia da paese contadino a consumistico – risponde l’innocenza dei contadini emiliani, che erano riusciti a preservare, grazie al socialismo, la loro identità culturale. Distribuito da tre major americane, l’utopia della rivoluzione contadina in piena Guerra Fredda veniva boicottata dalla Paramount per via di qualche bandiera rossa di troppo. Tra conflitti sociali e politici, con immediata comunicabilità ed empatia il grande mondo “perduto” su cui far muovere un’idea di cinema poetica ed eccessiva è a tratti potente e commovente, a tratti retorico e manieristico.
Quando la Storia entra prepotentemente nella vicenda, il film spicca il volo e il discorso politico di Bertolucci diventa vigoroso. L’influenza della Nouvelle Vague, in un continuo alternarsi tra la grammatica provocatoria tipica del cinema francese e quella classica del cinema americano, è evidenziata da epici piani sequenza che si sposano perfettamente alle panoramiche, ai carrelli, ai dolly e alla macchina a mano, portando a termine un grande progetto estetico e insieme ideologico. C’è poi Bob DeNiro, borghese ideale e reduce da “Taxi Driver”, con quell’icona dell’irrequietezza e dell’inafferrabilità femminile che è Dominique Sanda, femme fatale dall’apparenza spregiudicata: la Anna de “Il conformista”, la Micòl de “Il giardino dei Finzi Contini”, la Lou Andreas-Salomé di “Al di là del bene e del male”. La borghese decadente Ada è un personaggio bellissimo, poetico, fuori dalla politica, che non capisce la violenza e si finge cieca per sfuggire all’intollerabile realtà del fascismo, facendo apparizione solo alla morte della popolana Anita ammalatasi dopo il crollo della propria speranza rivoluzionaria. All’interno di un impianto narrativo estremamente rigoroso si intrecciano i motivi letterari da feuilleton (la struttura da saga familiare, i mascheramenti e le agnizioni nelle relazioni tra i personaggi) con quelli che si rifanno agli schemi dell’epica lukàcsiana o a certe soluzioni del realismo americano. Non mancano i riferimenti al romanzo di formazione (le esperienze sentimentali e sessuali di Alfredo e Olmo, nati in uno stesso giorno del 1900), mentre quelli che riguardano “il romanzo d’appendice” puntellano l’intera architettura della saga (l’iperrealistico e grottesco crescendo delle efferatezze perpetrate dalla sordida coppia “pulp” Attila-Regina).
Nel liberatorio finale si riafferma con prepotenza il tema della terra, tornano i contadini che festeggiano sotto un’enorme bandiera rossa, torna il sole e torna anche Olmo che processa sommariamente il suo amico/nemico. Il simbolico conflitto tra i due, ormai anziani, si protrae fino al litigio che culmina nella riproposizione dell’infantile gioco dello stendersi sulle rotaie al passaggio del treno (un tempo parallelamente e ora di traverso, come per un suicidio). La giovane contadina che, in apertura, indica l’orizzonte e racconta alle compagne la cronaca fiabesca della fuga dei “briganti neri” e di “Olmo sul suo cavallo bianco” è solo l’ennesima delle tante riproposizioni della circolarità di ‘Novecento’, in cui Bertolucci salda sapientemente la condizione onirica a quella dello stato di veglia, il dramma poetico alla realtà. Il Novecento di Bertolucci, ultimo vero imperatore del cinema italiano, mai si adagia nell’armonica sregolatezza con la quale ci restituisce l’inquietudine che lo fonda ma, ieri come oggi, ce lo fa sembrare attualissima utopica testimonianza. Finzione sì ma come solo i grandi Maestri sanno fare.