• Cookie Policy
  • Chi siamo
venerdì, Marzo 24, 2023
  • Login
Pickline
  • Italia
  • Politica
  • Economia
  • Green Economy
  • Mondo
  • Cultura
  • Salute
No Result
View All Result
  • Italia
  • Politica
  • Economia
  • Green Economy
  • Mondo
  • Cultura
  • Salute
No Result
View All Result
Pickline
No Result
View All Result

Stati Divisi d’America, voto sulla democrazia

Marco Fallanca di Marco Fallanca
Novembre 10, 2020
in Mondo
Tempo di lettura: 8 mins read
A A
Stati Divisi d’America, voto sulla democrazia

Un’America adrenalinica, parzialmente inattesa, intimamente divisa. Che a furia di esportare democrazia ne era quasi rimasta priva. Difficilmente ce la ricordiamo così: forse dai tempi degli omicidi dei Kennedy e di Martin Luther King, da quelli delle pantere nere e dei moti della convention democratica di Chiacago ’68. Le elezioni presidenziali sono state precedute da delicati mesi di tensioni, per le uccisioni di cittadini afroamericani da parte della polizia, seguite dalle manifestazioni di Black Lives Matter, talvolta anche violente. Quello che è arrivato al voto è un paese diviso, ferito, e lo si è visto. Un tirato testa a testa, in fondo, lo si poteva immaginare: da quando negli States è entrato in campo il populismo, c’è una quota di voto che non viene confessata nemmeno nei sondaggi e rilevata dagli exit poll. Eppure tutta la narrazione dei democratici, alla vigilia dell’Election Day, si è fondata sull’impraticabilità di un secondo mandato di Donald Trump e sulla certezza che le urne avrebbero definitivamente ripristinato il sentimento democratico, contrapponendosi a quello per l’antipolitica e rimuovendo per sempre l’esperienza di un mandato controverso come quello del tycoon newyorchese.

Più o meno competitiva o meno che fosse la ricandidatura di Trump, il risveglio delle coscienze del popolo americano c’è stato. Lo dicono i dati, che consegnano a Biden la Casa Bianca con il primato assoluto di voti popolari espressi, a livello nazionale, nella storia delle presidenziali. L’elezione che il presidente uscente contesta è, infatti, già entrata nella storia, lasciandosi alle spalle i record personali di Barack Obama prima e di Hillary Clinton poi con ben più di quattro milioni di voti di vantaggio sul rivale. E se, nonostante tutte le lacerazioni, con oltre 160 milioni di voti complessivi record di affluenza è stato anche quello alle urne (66,9%, il più alto registrato negli ultimi 120 anni), con fasce di popolazione che mai così copiose si erano mobilitate, il segnale è incoraggiante anche per l’intero sistema democratico a stelle e strisce che troppo a lungo si è retto su soglie di partecipazione ben inferiori al 50%. A causa della pandemia, infatti, almeno 101 milioni di americani hanno votato prima dell’Election Day del 3 novembre, ricorrendo o al voto postale (più di 65 milioni) o a quello anticipato (quasi 36 milioni). Non a caso, nella campagna di Trump si può leggere chiaramente, ormai a ritroso, come rispondesse a una lucida strategia quella demonizzazione insistita del voto postale, la nomina alla Corte Suprema come rete di protezione nel caso si fosse arrivati all’esito annunciato di un’onda blu. Che si è verificata, anche puntuale con lo spoglio dei voti postali, e che, con i potenziali oltre 300 voti dei grandi elettori in favore di Biden e un notevole scarto sul presidente uscente, fa di questi numeri – di questa affluenza e delle inattese rimonte nelle roccaforti repubblicane – un vero e proprio miracolo elettorale.

LEGGI ANCHE: Biden – Harris, il ritratto del ticket presidenziale

Trump, fino all’ultimo, ha rappresentato e personificato un fenomeno politico reale, espressione di una frattura vera, profonda, nella società, di una crisi di egemonia dell’Occidente. E sarebbe un grave errore se i democratici, nuovamente alla guida degli Stati Uniti, non si rendessero conto che l’esperienza Trump non ha costituito una parentesi ma l’espressione primaria di una crisi del “soft power” con la quale saranno comunque chiamati a confrontarsi –e misurarsi – nuovamente in futuro. Una parentesi legittimata sì dal voto sul piano della rappresentanza politica ma, rispetto alla tradizione della democrazia americana, comunque una sintomatica e allarmante variabile irrazionale che ha portato un presidente in carica a disporsi negativamente e aprioristicamente nei confronti del risultato elettorale, in caso di sconfitta. Risultato che, di pari passo a un’aspra invettiva e a una tendenziosa campagna comunicativa, è da Trump contestato con ogni mezzo, al solo fine di screditare e sminuire la vittoria altrui, tutt’altro che scontata.

Vittoria resa anche più evidente dal fatto che, sul piano sociale, il campo democratico-progressista, rappresentato dai ceti urbani e intellettuali, risulta molto più “visibile” rispetto a quello avversario, numerosissimo, del dissenso antisistema dell’antipolitica, e che, in ambito elettorale, è riuscito tuttavia nell’impresa di spazzare via con una massiccia mobilitazione la stessa contrapposta ondata che appena quattro anni addietro, in nome del principio maggioritario, aveva forse sacrificato la sostanza della democrazia. Non è un caso che il favorito Joe Biden, da Wilmington, Delaware, abbia più volte ribadito sì l’importanza del rispetto del singolo voto scrutinato quanto la ferma volontà di rappresentare tutti, non solo il proprio elettorato ma anche le minoranze (tornano in mente le memorabili pagine di Alexis de Tocqueville sulla “dittatura delle maggioranze”). Di contro, si riunisce nella fenomenologia populista non soltanto la legittimità del voto ma anche una cultura dell’esercizio del potere e della lotta politica che si avverte antidemocratica e pericolosa. Proprio come le accuse, infondante e non comprovate, e la retorica guerrafondaia e insolitamente vittimista che Trump ha riservato a un sistema rodato come il voto anticipato, a quello postale (che nel 2016, l’anno della sua elezione, lo ha visto mezzo di espressione di un quarto delle preferenze), al procedimento democratico di voto e al relativo scrutinio. Così come l’ostinato tentativo di autoproclamarsi prematuramente autentico vincitore, di rilanciare il verdetto nelle sedi giudiziarie e di non pronunciare un concession speech come garbo, prassi e galateo istituzionale richiedono.

L’idea di interrompere i conteggi, contestare a ogni costo e contro ogni evidenza la validità dei risultati, mobilitare l’elettorato incoraggiando la protesta di piazza con le armi legittimamente esibite ben in vista, va sicuramente oltre il confine della contestazione, della libertà d’opinione e del contraddittorio. Ed è un’idea di lotta politica ai limiti della democrazia. Fortuna che quella americana ha degli anticorpi forti e, indipendentemente dagli sviluppi di un’eventuale battaglia legale, neppure la Corte Suprema potrebbe mai razionalmente ribaltare un così schiacciante verdetto sancito da 75 milioni di preferenze popolari. Superate le prime turbolenze conseguenti alla scossa, in un quadro politicamente abbastanza bilanciato tra Camera e Senato, sarà l’intera classe dirigente degli Stati Uniti e il partito repubblicano – quanto mai lontano, nel suo nobile ed elitario conservatorismo, da identificarsi e impersonarsi in Donald Trump – a reagire al rischio di una destabilizzazione. Nella sua irregolarità, Trump si è reso protagonista di un’esperienza e di un modello che ha vinto le elezioni nel 2016 ma che, per la mancanza stessa di virtusiosmo e di una più pacata istituzionalizzazione, ha finito in qualche modo per revitalizzare la democrazia americana, spianando la strada a un candidato – non brillante, a detta di alcuni – come Joe Biden, capace di riaprire un confronto nel mondo Occidentale, di riunirlo intorno ai suoi valori fondamentali, di affrontare la ferita sociale che lacera le nostre società. Gli Stati Uniti, e con essi il loro dialogo con l’Europa, ripartono dalla democrazia, dall’uguaglianza, da un uomo e da una donna che credono nel lavoro, nell’aumento del salario minimo, nella lotta al cambiamento climatico e nella tutela dei diritti umani.

Al di là del profilo moderato del candidato, i democratici hanno virato con decisione in direzione di una campagna tutt’altro che moderata, mentre la gestione dell’emergenza Covid ha riportato in auge uno scontro con la destra sui valori: la vita, la speranza, la giustizia, l’inclusione, la scienza, la verità, la correttezza dell’informazione, la cura per il pianeta, una più ampia idea di futuro. Il voto è stato praticamente una scelta di campo, come ricordato da Kamala Harris, la prima vicepresidente donna, nera e asioamericana nella storia della democrazia americana. Sarà fondamentale il ritorno della centralità dello Stato nel recupero del ruolo pubblico come garante di uno sviluppo economico in grado di favorire la coesione sociale, di offrire una prospettiva a tutti. È auspicabile una nuova stagione in cui tra autorità e mercati s’instauri un’equilibrio capace di sviluppare una riforma del capitalismo che lo renda compatibile con l’uguaglianza. Insomma, un mondo progressista che non torni ad avere una visione del mondo e una radicalità sul piano dei valori e del messaggio difficilmente guadagnerà ampi consensi. Il virus ha interrotto i consueti ritmi dell’operatività della dialettica politica, e il flusso sovranista e populista, almeno in America, ha subito una brusca franata. Di fronte alla necessità di un sistema sanitario in grado di contrastare il Covid, che ha avuto un’implicazione sociale drammatica specialmente per il mondo del lavoro precario, ha reso decisiva la spinta del sottoproletariato bianco della regione dei Grandi Laghi, gli stessi che quattro anni fa non appoggiarono Hillary, essendo tradizionalmente conversatori.

A guardar bene la stratificazione del voto, così come altri partiti e leader in Europa, Trump ha saputo interpretare le divisioni del suo partito ma anche la crisi di una classe sociale derivante dalla globalizzazione, quella degli operai bianchi che si sentivano traditi da una sinistra alfiere del liberismo mentre perdevano il posto di lavoro. Aveva utilizzato la debolezza della divisione etnica per lanciare una massiccia campagna di disinformazione sui social che ha portato, al momento della sua prima candidatura, alla delegittimazione del primo presidente afroamericano. Adesso, nel testa a testa in Wisconsin, a decidere la partita è stata proprio la contea di Kenosha, dove mesi fa si sono verificati episodi razziali che hanno visto la polizia sparare a distanza ravvicinata 8 colpi alla schiena all’afroamericano Jacob Blake, immobilizzato contro la portiera del suo SUV e sotto lo sguardo dei tre figli. Nessuna condanna era seguita da parte del presidente che però avrebbe poi speso parole a difesa del ragazzo di 17 anni che, nella stessa città, ha sparato con un fucile semiautomatico a due manifestanti antifascisti, uccidendoli, durante i moti di protesta.

Appellandosi al nazionalismo, al ruolo della razza bianca, con i toni di una campagna elettorale permanente, lo sconfitto alla disfida gerontocratica ha portato avanti una strategia atta a tenere aperto il gioco all’electoral college con i ricorsi legali e tutti gli altri mezzi a sua disposizione. Una resistenza a oltranza che si deve probabilmente sia al tentativo di preservare la fortunata immagine di bullo guadagnatasi all’interno del partito, sia alla voglia di intestarsi un’opposizione interna allo stesso. Ma anche e soprattutto al fatto che, da sconfitto, Trump perderà l’immunità e sarà chiamato a rispondere degli allegri movimenti fiscali, delle sue opache e avare dichiarazioni dei reditti che lo metterebbero in una posizione assai scomoda agli occhi della Procura dello Stato di New York. Le contestazioni post-elettorali e lo sgarbo istituzionale potrebbero, secondo molti, costituire un tentativo di condizionare la magistratura a concedergli una sanatoria in cambio della fine delle ostilità. Resta comunque difficile dire oggi quale ruolo potrà avere Trump, se rimarrà in politica, all’interno del partito repubblicano. Il trumpismo significa disinformazione, complottismo, conflitto, caos, in particolare su politica estera, Covid, clima. In sostanza, su tutto ciò che può riguardare il futuro del pianeta e contro cui la maggioranza dell’elettorato si è mobilitato.

Eppure, almeno in parte, The Donald è ancora la pancia dell’America – o meglio di un’America – e, se 70 milioni lo hanno votato allargando il suo bacino elettorale, continuerà in qualche modo a esercitare un’influenza politica. Secondo fonti a lui vicine, potrebbe candidare alle elezioni di mid-term, in un colleggio della Florida, come senatrice la secondogenita Ivanka, già advisor del presidente, che potrebbe così emanciparsi dal padre e dal marito Jared Kushner (tra gli architetti degli Accordi di Abramo che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan). Più cautamente, potremmo dire di aver assistito alla fine di Trump ma non a quella del trumpismo. Altresì è molto probabile che sia lo stesso partito repubblicano – già allineatosi sulla nomina alla Corte suprema di Amy Coney Barrett – a svoltare al centro e isolare il presidente sconfitto, varando per lui un necessario exit plan idoneo ad avviare una fase politica di pacifica transizione. In definitiva, se con estrema resilienza la coalizione radicalizzata, populista e di protesta di Trump era riuscita nell’impossessarsi del partito repubblicano (che ha corso il rischio potenziale di cambiare pelle in modo irreversibile), il partito democratico si è evoluto su una linea più moderata e con vocazione bipartisan.

E dopo una così difficile parentesi nelle relazioni transatlantiche, con la recente e crescente asprezza tra Usa ed Europa, l’elezione di Biden è centrale non solo per gli accordi di Parigi sul clima e il ritorno nell’alveo dell’OMS ma anche per una più felice evoluzione dei rapporti con istituzioni come la Nato. Senza dimenticare la competizione geopolitica e sui mercati o il nodo della Cina – che nel frattempo ha già ricominciato a crescere – a riproporre una situazione oggettiva di scontro e rapporti che si configureranno comunque problematici. Trump ha azzardato una guerra commerciale in termini di puro bussiness, Biden conosce bene l’importanza della democrazia a Hong Kong oltre a quella dei trattati commerciali. E non sorprenderebbe, in ambito interno, una stretta sul più ampio e libero accesso alle armi e un segnale concreto d’integrazione e inclusione rivolto a favore delle diverse componenti etniche e delle minoranze. Nonostante tutto, sembra, quindi, aver retto bene al logorio del tempo la democrazia liberale transatlantica e il sistema politico-costituzionale ed elettorale americano che, per quanto barocco, prescrive di eleggere ogni quattro anni il presidente alla data fissa di novembre, scadenza che non può essere manipolata da alcuna istituzione, nemmeno dalla più alta carica dello Stato federale. Un unicum nel panorama dei sistemi democratici che, favorendo l’alternanza dei partiti, si rivela la principale garanzia della sovranità popolare, indipendentemente dalle spinte autocratiche interne o esterne alle istituzioni.

Tags: DemocraziaDonald TrumpElezioni presidenziali Usa 2020Joe BidenStati UnitiUsa 2020
Share495Tweet310Share87ShareSendSend
Articolo precedente

Dalla sperimentazione alla distribuzione: cosa sappiamo del nuovo vaccino Pfizer/Biontech

Articolo successivo

Accordo tra Parlamento e Consiglio europeo sul bilancio: il Recovery Fund è più vicino

Altri Articoli

Da Sunak a Fauci: tutti i conflitti di interesse sui vaccini
Mondo

Da Sunak a Fauci: tutti i conflitti di interesse sui vaccini

Marzo 21, 2023
Mea culpa della Germania su vaccini e restrizioni
Mondo

Mea culpa della Germania su vaccini e restrizioni

Marzo 15, 2023
Quel trattato dell’Oms che fa temere il golpe sanitario
Mondo

Quel trattato dell’Oms che fa temere il golpe sanitario

Marzo 3, 2023
Articolo successivo
Accordo tra Parlamento e Consiglio europeo sul bilancio: il Recovery Fund è più vicino

Accordo tra Parlamento e Consiglio europeo sul bilancio: il Recovery Fund è più vicino

  • Italia
  • Politica
  • Economia
  • Green Economy
  • Mondo
  • Cultura
  • Libri
  • Tech
  • Sport
  • Salute

© 2021 Casa editrice: MAURFIX S.r.l.
P. IVA 02713310833 - ROC n. 31556 - ISSN 2611-528X
PICKLINE è una testata giornalistica registrata al Tribunale di Roma n. 89 del 22/05/2018
Fondatore e Direttore Editoriale: Maurizio Andreanò
Direttore Responsabile: Gianluca Santisi
Mail: redazione@pickline.it

No Result
View All Result
  • Italia
  • Politica
  • Economia
  • Mondo
  • Cultura
  • Salute

© 2021 Casa editrice: MAURFIX S.r.l.
P. IVA 02713310833 - ROC n. 31556 - ISSN 2611-528X
PICKLINE è una testata giornalistica registrata al Tribunale di Roma n. 89 del 22/05/2018
Fondatore e Direttore Editoriale: Maurizio Andreanò
Direttore Responsabile: Gianluca Santisi
Mail: redazione@pickline.it

Welcome Back!

Login to your account below

Forgotten Password?

Retrieve your password

Please enter your username or email address to reset your password.

Log In