In questi giorni ho fatto l’umarell ed ho girato fra i tanti cantieri che il superbonus ha fatto aprire in città. Ho fatto l’umarell un po’ forse per abituarmi alla mia prossima condizione, un po’ per curiosità. Infatti, piuttosto che guardare con le mani intrecciate dietro la schiena i lavori in corso, ho aguzzato l’orecchio per ascoltare se qualche edile fischiettasse o cantasse uno dei motivetti del Festival di Sanremo in corso. Ma tranne qualche urlo – «ma passi a pala» – e qualche confessione – «ma frati si presi u covid» – non sono riuscito a origliare altro.
Appurato che gli operai fossero tutti italiani, e non romeni, mi sono incamminato verso il mercato. Infruttuosa anche questa passeggiata. «‘O vivo», «u piscispada chi beddu», nessun stornello, nemmeno una rima baciata in musica o un tamburello.
Tornando mestamente a casa, ho spiato negli abitacoli delle automobili, sperando di trovare qualcuno a canticchiare con l’autoradio accesa. Niente, tutti incollati al telefonino, perpendicolare alla bocca. Se una volta si veniva attratti dai bassi che pompavano techno dalle Golf oggi possiamo orecchiare litigi e dialoghi di lavoro dai Suv.
LEGGI ANCHE: Sanremo 2022, la pagella delle canzoni
Possibile che gli italiani non cantino più? A confortarmi ho scovato su Internet un sondaggio condotto da Casa.it secondo il quale il luogo dove i maschietti preferiscono intonare una canzone è sotto la doccia, mentre le donne si esibiscono in varie stanze impegnate nelle pulizie. Non avendo però mai ascoltato i vicini di casa gorgheggiare, arguisco che: o nel condominio nessuno si fa la doccia né usa l’aspirapolvere, oppure per pudore e vergogna cantano sottovoce. Ma, più probabilmente, l’italiano non canta più.
Già se lo chiedeva Pasolini: come mai non si sente fischiettare più nelle nostre strade? Abbiamo perso la voce? O siamo diventati come i cinesi, che cantano soltanto nei locali di karaoke? Forse abbiamo smarrito le voci e le canzoni. Una volta a Sanremo spopolavano Claudio Villa, Domenico Modugno, Al Bano, voci con tratti popolareschi, televisivamente imperfette. I loro brani avevano il tono e la sfrontatezza di certe canzoni improvvisate in cucina o per le scale. Avevano quella grana di canzone condivisa che oggi si è molto diradata fra team di autori che curano nei minimi dettagli ogni pezzo per avvicinarlo ai dettami e alle tendenze del mercato. Oggi chi mai potrebbe cantare o tantomeno fischiettare Ti amo non lo so dire, che la stessa Noemi ha metabolizzato soltanto alla seconda serata, oppure le due canzoni che si contendono la vittoria finale, O forse sei tu di Elisa e Brividi di Mahmood & Blanco? Sanremo si guarda, lo share veleggia oltre il 50%, ma non si canta. Tant’è che i protagonisti badano più al look che alla proposta musicale. D’altronde, fatte rarissime eccezioni, le canzoni del Festival sono dimenticate appena il sipario cala sul Teatro Ariston.
Gli italiani non cantano più non perché, come denunciano le indagini sociologiche, sono depressi, preoccupati e più poveri. Non si canta perché siamo sommersi, assordati, dalla musica. Nei supermercati, nelle stazioni, nei bar, negli aeroporti, nei lidi, siamo continuamente inseguiti da video musicali, tormentoni, filodiffusioni. Paradossalmente, si vendono sempre meno dischi, ma si consuma sempre più musica. Non cantiamo più, ma ci sono più cantanti. E quando non si canta più se non per farsi notare, allora non è più canto, ma un’altra cosa.