«Devo tutto alla musica che non fa distinzioni di sorta, non è il passare del tempo che conta, ma come lo usi. Intrigante è il viaggio che la musica ti permette tra fortissime emozioni, splendide illusioni e tremende delusioni. Sono 70 volte che la terra mi fa girare intorno al sole e la testa non mi gira ancora». Settant’anni il 7 febbraio, ma, in fondo, Vasco Rossi è rimasto com’era, quando leggendo da ragazzino “I ragazzi della Via Paal” scoprì l’importanza della lealtà di gruppo. «Perché il mondo si divide in due: da una parte gli infami, quelli che fanno la spia, dall’altra quelli che non raccontano niente». E che «infami si nasce, non si diventa». Lui sta istintivamente ancora e sempre con i ragazzi che nessuno vuole far entrare nel gioco del sistema, si riconosce nel loro mondo marginale, come loro si è sentito escluso, come loro ha cercato un paradiso fatto di notti bianche al Roxy Bar, di whisky e canne.
Dalla sua, però, ha qualcosa che manca a tanti altri cantautori, il lessico giusto, il parlato semplice «onesto e sincero», la capacità di dire le cose che i ragazzi pensano con le stesse parole che loro usano. Se Guccini, nel suo impeto libertario, rischia talvolta la nobile retorica, se De Gregori è sempre tentato dall’ermetismo, Vasco vanta un’economia linguistica rara. Ha un vocabolario limitato, raccoglie e adatta termini presi dalla pubblicità, gioca sulle ripetizioni con grande bravura («e va bene va bene va bene, anche se non mi vuoi bene telefonami»), sceglie – come dichiarava orgoglioso nei primi anni Ottanta – la fiction per immagini. «Ha il magico potere di trasformare il quotidiano in sublime» diceva Fernanda Pivano «usando solo poche e semplici parole».
Canzoni? Inni, cose condivise. Vasco compie 70 anni e conosce i giovani meglio di chiunque, i loro meccanismi interni, le loro problematiche. Ai suoi concerti gli accaniti bivaccano di notte per un posto in prima fila, dove potranno captare quegli inconfondibili “mmm”, quei “beeh”, le interiezioni. Ogni tanto si contano, e si scoprono sempre di più. Undici concerti affronterà quest’anno tra maggio e giugno, da Trento a Messina, e registrano il “tutto esaurito” da tempo. Che il suo carisma sia ancora intatto, è confermato dal nuovo album Siamo qui, il diciottesimo in studio della sua carriera, che ha guadagnato dopo soli sette giorni la prima posizione degli album più venduti in Italia e la top 5 degli album più scaricati al mondo su iTunes, consentendo a Rossi il raggiungimento di un nuovo primato: essere primo in classifica degli album più venduti in cinque decenni differenti. Così diventa, e rimane ancora oggi, l’unico in grado di sintonizzarsi con i giovani. Qualunque sia la loro fede politica.
Come si diventa Vasco Rossi? Com’è che si arriva dal bambino canterino, capelli biondi con la banana, primo classificato al concorso Usignolo d’oro 1965 di Modena (con la canzone Come nelle fiabe) al rocker che vuole una vita spericolata e si attira gli insulti di benpensanti e custodi della morale, per diventare la più grande rockstar italiana? Molto, è vero, ha aiutato il fattore ambientale, il Grande Paese della musica italiana che corre lungo la Via Emilia, terra ricca di concorsi (dallo Zecchino d’oro a Castrocaro), di balere, discoteche, scantinati rock; in cui si sa come si comincia, poi si può diventare Nilla Pizzi o Ligabue, Raul Casadei o gli Skiantos, Caterina Caselli o Gianni Morandi. O appunto Vasco Rossi.
Lui, il Blasco, ripete sempre che ha avuto molti problemi con le etichette che i giornali gli affibbiavano. Per esempio, il “rocker di Zocca” lo mandava in bestia. «Meglio provocautore», commenta. «O sennò, per farla più semplice, diciamo rockstar». Anche la parola mito gli fa un po’ rabbia: sulla prima pagina del supertascabile Mondadori, uno dei Miti appunto, contenente una scelta delle sue canzoni, facendo la dedica a un amico scriveva: «Mito? No, una leggenda, oh yeah!». E anche la storia del cattivo maestro proprio non la regge. Perché lui non ha niente da insegnare a nessuno, né in bene né in male. Ha solo dubbi, solo domande. Così, quando riceve la laurea honoris causa allo Iulm di Milano, di una cosa dichiara di essere soprattutto contento: che oramai il dottor Rossi ha chiuso la stagione del cattivo maestro.
Ma poi, di quale Vasco Rossi si parla? Di quello che andava al massimo, dai primi anni ’70 (Bologna, Punto Radio, le prime canzoni, i primi locali, una vita che non è mai tardi) fino alla stagione maledetta, 1984-88, i due arresti per cocaina? O invece di quello che dopo esser risorto urlando C’è chi dice no comincia a dare la scalata agli stadi italiani, magari imparando ad andare a letto presto, a fare una vita più regolata (con Laura Schmidt e il figlio Luca), a leggere più libri e meno fumetti, a chiedersi come si fa a dare un senso a una vita che un senso non ce l’ha? Oggi, allo scoccare dei 70 anni, a chi gli chiede chi sia Vasco Rossi, lui risponde che «Vasco Rossi è quello che sta sul palco, la rockstar, quello che i fan seguono di concerto in concerto un po’ come la madonna che appare. Oggi lui è molto più grande di me, tanto che per strada ho sempre paura che mi dicano: no, non sei tu Vasco, tu hai l’aria di uno sfigato, lui no. Vasco non si annoia mai, io sì, invece. Perché alla fine ho scoperto che la vita non è quella dei film, senza tempi morti, che non si fa mai tardi. Insomma, che l’età delle illusioni è finita».
Auguri Vasco.