All’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Stati Uniti e Unione europea hanno reagito imponendo una serie di sanzioni con lo scopo di isolare l’economia russa e bloccare le esportazioni. Le misure in atto, come ha recentemente sottolineato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, «avranno anche un costo per le nostre economie, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare» per costringere Putin a fermare le ostilità.
Certamente non è semplice quantificare gli effetti delle sanzioni sui due blocchi, ma la questione che ci riguarda più da vicino, e più nell’immediato, è quella relativa all’approvvigionamento di gas. La guerra tra Russia e Ucraina potrebbe portare alla definitiva interruzione delle esportazioni di gas dalla Russia all’Unione europea. In Italia il governo Draghi ha dato il via libera a misure emergenziali per evitare che uno shock energetico generi un caro-bollette e un duro colpo per la nostra economia. Tra queste anche la possibilità di tornare al carbone, almeno per un periodo.
L’Italia avrebbe dovuto dirgli addio entro il 2025, scadenza prevista dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, ma dopo la Guerra in Ucraina e le possibili ripercussioni sulle forniture di gas russo, adesso l’imperativo è diversificare e tra le possibili fonti energetiche alternative, torna anche quella del carbone. In via assolutamente preventiva il governo si prepara ad accelerare sugli stoccaggi in vista della prossima stagione invernale. Se necessario dunque, l’utilizzo del metano per la produzione di energia elettrica potrebbe essere in parte ridotto e convogliato verso le riserve strategiche, massimizzando contemporaneamente la capacità delle centrali che utilizzano carbone o riattivando i gruppi che sono stati spenti.
In Italia sono presenti sette centrali a carbone. E fino a poco tempo fa erano state tutte destinate allo spegnimento o alla conversione, in nome della transizione energetica. L’unica centrale effettivamente spenta è la Eugenio Montale, di La Spezia, che ha una capacità di produzione di circa 680 megawatt di potenza. Le altre sei, alcune composte da più unità parzialmente operative, vanno dalle due della Sardegna di Fiume Santo e Portoscuso, che però servono al fabbisogno dell’isola, a quella di Fusina vicino a Venezia e di Monfalcone spenta nel 2020, ma riattivata per qualche tempo lo scorso dicembre, fino ad arrivare alle più grandi di Brindisi e Torrevaldaliga Nord nei pressi di Civitavecchia, per un totale complessivo di circa 7.000 megawatt di capacità produttiva installata.
Nel 2021, secondo Nomisma Energia con il carbone si è coperto appena il 5% del fabbisogno di elettricità italiano, solo una decina d’anni fa si arrivava al 13-15%. Mentre tra i Paesi avanzati, con il 27%, la Germania è quello che ha ancora la maggior percentuale di carbone nel suo mix elettrico. Se da noi si raddoppiasse la quota di partenza si arriverebbe allora a garantire con il carbone attorno al 10% dell’energia elettrica, rispetto però al 60% della domanda che viene soddisfatta con il gas.
«Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone», ha detto Draghi nel corso dell’informativa alla Camera sul conflitto tra Russia e Ucraina. Il problema è che il carbone, come tutti i combustibili fossili, è altamente inquinante. E infatti l’Italia, assieme ad altri paesi, si era impegnata, nel corso della conferenza sul clima delle Nazioni Unite a Glasgow dello scorso anno, Cop 26, a non farvi più ricorso, nonostante Cina, India, Russia e Australia avessero espresso in quell’occasione parere contrario.