La storia dell’importazione di gas russo inizia negli anni Settanta, quando i contratti con l’Unione Sovietica permisero all’Occidente e all’Italia di trovare un’alternativa al petrolio del Medio Oriente. Ma adesso la guerra in Ucraina potrebbe cambiare la storia dell’approvvigionamento dell’energia. E il tempo non gioca a favore: molte contromisure non sono immediate mentre il rischio di un’interruzione delle forniture dalla Russia, totale o parziale, potrebbe diventare una realtà da un giorno all’altro, o per volontà politica o per incidente militare.
Ogni anno da Mosca arrivano in Europa circa 100 miliardi di metri cubi di gas che garantiscono al paese incassi per circa 800 milioni di dollari al giorno. Ma un’ipotetica chiusura dei rubinetti non avrebbe gli stessi effetti ovunque. Chi paga il prezzo più alto in assoluto è la Germania: 43 miliardi di metri cubi equivalenti al 51% del suo import. Seconda viene l’Italia: 29 miliardi di metri cubi, ovvero il 40% del gas totale che importa. Pare evidente che il problema di come sostituire dall’oggi al domani 155 miliardi di metri cubi di gas diventi impossibile da risolvere, e sarebbe difficilissimo anche nel medio termine.
La Germania ha avviato colloqui con la Norvegia sulla possibilità di costruire una condotta tra i due paesi per l’idrogeno. Oslo e Berlino hanno in programma di condurre presto uno studio di fattibilità sul progetto. Il cancelliere Olaf Scholz ha promesso di rafforzare gli impianti di stoccaggio del gas per ridurre le conseguenze di potenziali interruzioni dell’approvvigionamento. Il governo sta inoltre acquistando gas naturale liquefatto, sostenendo gli sforzi per costruire nuovi terminali Gnl e spingendo per una più rapida espansione delle energie rinnovabili.
La Francia ha annunciato di essere pronta ad avviare colloqui con la Spagna per la costruzione di un gasdotto che colleghi i due paesi attraversando i Pirenei. Parigi che in passato aveva declinato le proposte di Madrid su questo progetto è ora disposta a discutere la fattibilità del cosiddetto gasdotto Midcat. La Spagna dispone di circa un quarto della capacità di rigassificazione europea ma le reti su terra non sono in grado di integrare pienamente i terminal su mare con le condotte europee.
Anche l’Italia mette in atto i primi tentativi per ridurre la sua dipendenza dal gas russo. Nelle ultime settimane il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi hanno viaggiato in diversi paesi, dall’Algeria al Qatar, per cercare di fare nuovi accordi sull’importazione del gas naturale. Per quanto riguarda l’Algeria, che peraltro nel mese di febbraio 2022 è già stata il primo paese esportatore di gas in Italia, un accordo è già stato trovato: Eni farà un investimento per aumentare la produzione locale di gas, stagnante da alcuni anni, e poter così far crescere la quota destinata alle esportazioni. Anche in Qatar Eni vorrebbe investire per arrivare a un aumento delle importazioni di gas naturale liquefatto (GNL), cioè di gas che viene condensato in modo che occupi meno spazio e possa dunque essere trasportato via nave. Di questo tipo di gas il Qatar è già il primo esportatore per l’Italia. Anche dall’Angola e dal Repubblica del Congo si vorrebbe comprare gas liquefatto e il piano di Eni sarebbe realizzarvi due impianti per la liquefazione, per arrivare all’importazione dopo il 2023.
Teoricamente le importazioni potrebbero aumentare anche attraverso due dei gasdotti internazionali che passano per l’Italia, il GreenStream proveniente dalla Libia, le cui esportazioni di gas sono diminuite a causa della guerra civile, e il gasdotto Trans-Adriatico (anche noto con la sigla in inglese TAP), che dalla frontiera tra Turchia e Grecia arriva in Albania e poi a Melendugno, in provincia di Lecce, attraverso l’Adriatico. Il TAP trasporta il gas prodotto dall’Azerbaigian: nel 2021 l’Italia ne ha importati più di 7 miliardi di metri cubi, che quest’anno potrebbero diventare 9.
Inoltre, Draghi pochi giorni fa ha annunciato la temporanea riapertura delle centrali a carbone: quella Enel di La Spezia, chiusa a dicembre 2021, e quella A2A di Monfalcone. In teoria, facendo operare le 7 centrali a carbone a pieno regime si determinerebbe un risparmio di gas di 8 miliardi di metri cubi l’anno, ma le difficoltà del riavvio portano la stima a 4 miliardi. La metà del carbone, poi, arriva proprio dalla Russia e andrebbe ovviamente sostituita in tempi brevi. La contropartita: fino a 28 milioni di tonnellate di CO2 in più, l’8% delle emissioni nazionali.
L’idea del governo è di raggiungere questi obiettivi entro il 2023, anche perché nel breve termine è impossibile pensare di fare a meno del gas. E non è tutta colpa della crisi russo-ucraina, perché negli ultimi vent’anni non abbiamo mai predisposto un piano nazionale, e ora siamo costretti a rincorrere la sicurezza energetica barattandola, tra l’altro, con il riscaldamento globale.