Il verdetto della Corte Costituzionale sui ricorsi contro l’obbligo vaccinale non ha fin qui suscitato molti commenti sulle possibili conseguenze ordinamentali e giuridiche che potrebbe avere. In parte il fatto è comprensibile: quel che abbiamo in mano al momento è un comunicato stampa, mentre i giudici costituzionali ovviamente parlano soprattutto con sentenze e motivazioni alla mano. In attesa di leggere queste ultime, tuttavia, Vincenzo Baldini, ordinario di Diritto Costituzionale dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale, ha sollevato alcune questioni interessanti in merito alla progressiva trasformazione della Costituzione in senso illiberale e alla subordinazione della Corte Costituzionale alla politica.
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«La Costituzione sta subendo una progressiva trasformazione nella sua essenza originaria liberale, costruita mettendo al centro del sistema la persona e la sua libertà. Questa dimensione originaria della Costituzione si attenua man mano che aumenta l’impegno pubblico dello Stato, cioè la sfera di ciò che lo Stato per comodità chiama “interesse pubblico”. Se a questo aggiungiamo le riforme costituzionali in corso, notiamo che si sta trasferendo dall’ambito dei diritti all’ambito degli interessi generali quelli che fino a ieri erano considerati valori di libertà: l’ambiente ad esempio è stato da sempre tutelato come diritto fondamentale soggettivo, oggi diventa un interesse pubblico generale che lo Stato assume legittimando così il proprio controllo sulla comunità e la compressione di diritti. Il Green pass sanitario, il figurino della sicurezza sanitaria, diventa allora modello esportabile per la sicurezza ambientale, sociale e via dicendo».
Vincenzo Baldini pone anche la questione della progressiva delegittimazione della Corte Costituzionale. «Il problema della credibilità dell’organo e del consenso sociale alle sue decisioni è tutt’altro che marginale o inesistente in quanto investe la tenuta stessa dello stato costituzionale di diritto anche quale unità politica», scrive il costituzionalista in un editoriale su informazionecattolica.it. «Non passano più del tutto inosservate l’elezione o le nomine di giudici costituzionali effettuate dal Parlamento in seduta comune o dal Capo dello Stato che vantano per il passato chiare militanze politiche e annoverano nella loro lunga esperienza un qualche pregresso politico (come ad es. i professori Giuliano Amato e Augusto Barbera) o hanno comunque avuto relazioni sia pure di ordine tecnico-formale con la sfera delle istituzioni politiche (come ad es. il professor D’Alberti). Il problema non è l’indipendenza e la credibilità, meno che mai la competenza oggettiva e l’onestà scientifico-intellettuale, delle personalità che ricoprono l’incarico prestigioso di giudice costituzionale. Si tratta, tutte, di personalità pienamente titolate, sul piano scientifico e accademico, a rivestire tale ruolo e dotate della necessaria consapevolezza del ruolo chiamate a ricoprire».
La questione attiene in particolare alla percezione che di giudici costituzionali in precedenza impegnati in compiti politici ha o può avere la comunità sociale. «È una questione avvertita e seria che rischia, alla lunga, di insinuare germi di un indebolimento e di progressiva delegittimazione di un organo, come la corte costituzionale, la cui rilevanza ai fini della tenuta dello stato costituzionale di diritto, è assoluta», sostiene Baldini. «In questa condizione, può non apparire del tutto incongruente o peregrino, proprio allo scopo di rafforzare la trasparenza e l’indipendenza di quest’organo, una integrazione dell’art. 135 c. 6 Cost. prevedendosi come causa di ineleggibilità e/o come divieto di nomina da parte del Capo dello Stato, l’avere ricoperto negli ultimi 15 anni cariche politico-istituzionali di parlamentari, componenti di governo o componenti di organismi di consulenza politico-istituzionale, o hanno rapporti di parentela o affinità entro il terzo grado con persone che hanno ricoperto tali incarichi».