Dopo gli annunci degli scorsi giorni della premier Giorgia Meloni, il Consiglio dei ministri ha varato il pacchetto di misure sui migranti. Come previsto, pertanto, il governo modifica il termine massimo di trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri, ovvero i centri in cui vengono detenute le persone che non hanno un permesso di soggiorno valido per rimanere in Italia, in attesa di essere espulse: 6 mesi, prorogabili per ulteriori 12, per un totale di 18 mesi. Il provvedimento è inserito nel decreto Sud. Novità che sembrano più fumo negli occhi che reali soluzioni sia per il numero irrisorio di rimpatri che l’Italia riesce a effettuare che per la quantità di posti nei Cpr, totalmente distanti dai numeri degli sbarchi in Italia.
Attualmente la detenzione era di 90 giorni, prorogabili per altri 45, ma da mesi il governo guidato da Giorgia Meloni voleva allungare questo periodo, perché vede il potenziamento dei centri di rimpatrio come soluzione per gestire meglio l’immigrazione e favorire i rimpatri dei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale. L’estensione del tempo di detenzione a 18 mesi sarà valida per gli stranieri non richiedenti asilo «per i quali sussistano esigenze specifiche», come i casi in cui «lo straniero non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi».
Grazie all’aumento a 18 mesi del termine di trattenimento, per Giorgia Meloni, ci sarà «tutto il tempo necessario, non solo per fare gli accertamenti dovuti, ma anche per procedere con il rimpatrio di chi non ha diritto alla protezione internazionale». Per quanto riguarda i richiedenti asilo la premier ha fatto sapere che il limite di trattenimento «è già oggi di 12 mesi e non verrà modificato ma diventerà effettivo grazie alla realizzazione dei necessari centri di permanenza per chiunque sbarchi illegalmente in Italia, richiedenti asilo compresi». Se così fosse servirebbero però centinaia di migliaia di nuovi posti nei Cpr, che al momento sono poco più di un migliaio nelle 9 strutture attive nel Paese.
Nuovi Centri di rimpatrio che il governo intende realizzare «in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili», probabilmente in caserme ed ex basi militari. Al momento ne esistono 10 in 8 regioni (Puglia e Sicilia ne hanno due ciascuna), per un totale di 1.300 posti: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Milano, Palazzo San Gervasio (Potenza), Roma, Torino e Trapani. Solo 9 di questi sono attivi, perché a inizio marzo il Cpr di Torino è stato chiuso temporaneamente dopo una rivolta di alcune delle persone detenute, che avevano incendiato parte dei locali e reso inagibili gli spazi.
L’istituzione di nuovi Cpr in zone poco popolate e lontane dai centri, tendenzialmente difficili da raggiungere è stata molto criticata perché rende più facile la proliferazione di abusi e violenze. Nei Cpr già esistenti, infatti, da anni le associazioni che si occupano di diritti umani denunciano le condizioni disumane e degradanti in cui si trovano le persone detenute.