«Il sostegno globale e il riconoscimento della mia difesa dei diritti umani mi rendono più risoluta, più responsabile, più appassionata e più fiduciosa. Spero anche che questo riconoscimento renda gli iraniani che, protestano per il cambiamento, più forti e più organizzati. La vittoria è vicina», ha detto Narges Mohammadi detenuta in carcere in un messaggio arrivato al New York Times subito dopo la notizia di aver ottenuto il Premio Nobel per la Pace 2023.
È una delle più celebri attiviste per i diritti delle donne e per i diritti umani in Iran, che ha sostenuto tra le altre cose le proteste cominciate l’anno scorso dopo la morte di Mahsa Amini. Per la sua attività in difesa dei diritti umani il regime politico-religioso che governa l’Iran ha arrestato Mohammadi 13 volte, l’ha sottoposta a cinque condanne penali e l’ha condannata complessivamente a 31 anni di prigione. Nell’ambito delle varie condanne è stata sottoposta anche a pene corporali, tra cui 154 frustate. Attualmente sta scontando una condanna a dieci anni di carcere nella prigione Evin di Teheran per «diffusione di propaganda antistatale».
Narges Mohammadi è nata nel 1972 a Zanjan, una città a circa 300 chilometri a nord-ovest di Teheran, la capitale iraniana. Si è laureata in Fisica, ma fin dagli anni dell’università è stata impegnata nei movimenti clandestini per i diritti delle donne. Nel 2003 entrò a far parte del Centro dei difensori dei diritti umani, una Ong fondata da Shirin Ebadi, un’altra vincitrice del Nobel per la Pace. Mohammadi si concentrò soprattutto sulla difesa dei diritti dei carcerati e dei prigionieri politici, e sulle campagne per l’abolizione della pena di morte. Nel corso della sua carriera è stata arrestata innumerevoli volte, e ha trascorso buona parte degli ultimi 15 anni in prigione. Dal carcere ha avviato numerose campagne contro l’uso della tortura e delle violazioni sessuali soprattutto contro le carcerate donne.
Nel settembre del 2022 cominciarono in Iran le proteste per la morte di Mahsa Amini, che ben presto si estesero in tutto il paese. Amini era una donna di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, che era stata fermata dalla polizia religiosa perché non indossava correttamente il velo islamico, o hijab, come prescritto dalle leggi iraniane. La sua morte, causata probabilmente dalla violenza e dalle percosse della polizia, provocò enormi proteste che nel tempo diventarono la sfida più seria al regime teocratico instaurato in Iran dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.
La repressione del regime contro le proteste divenne ben presto durissima e violenta: più di 500 persone sono state uccise, e circa 20 mila arrestate. Anche il carcere di Evin, dove si trovava Mohammadi, si riempì di persone che avevano partecipato alle manifestazioni dell’ultimo anno. Molte di loro furono torturate, e spesso i trattamenti più crudeli erano riservati alle donne. Alla fine del 2022 Mohammadi, dal carcere, inviò una lettera all’emittente britannica Bbc in cui descriveva come lo stupro e le violenze sessuali fossero usati sistematicamente come forma di tortura per punire le donne detenute a Evin.
Non è il primo riconoscimento per l’attivista cinquantunenne: nel 2009 vinse il premio Alexander Langer dedicato all’impegno civile, culturale e politico. Quello era l’anno segnato dalla Rivoluzione verde, seguita alle elezioni presidenziali più controverse della storia della Repubblica islamica, che videro confermato l’ex presidente pasdaran Mahmoud Amadinejad. Il comitato del Nobel, esprimendo le motivazioni del premio per «la lotta dell’attivista contro l’oppressione delle donne in Iran e per i suoi sforzi nella promozione dei diritti umani e della libertà per tutti», ha espresso l’auspicio che le autorità iraniane rilascino l’attivista in modo che partecipi alla cerimonia di consegna che avverrà a dicembre.