La vita della piccola Indi Gregory, la bimba inglese nata a febbraio con la sindrome da deperimento mitocondriale, si è spenta lunedì scorso, ma la sua storia e le implicazioni della sua vicenda sono ancora al centro del dibattito. È stato «giusto» staccare i macchinari che la tenevano in vita? Perché l’ultima parola è spettata ai medici?
La piccola si trovava ricoverata fin dalla nascita al Queen Medical Centre di Nottingham, in Inghilterra, a causa di una rara condizione genetica, una malattia mitocondriale. Per i medici non era curabile, e non c’era nulla che si potesse fare per salvare la piccola. Quello che però si poteva fare era evitare di prolungare le sue sofferenze. Così circa un mese fa hanno chiesto ai giudici l’autorizzazione per sospendere i trattamenti che la tenevano in vita. I genitori si erano opposti, ma il tribunale aveva dato ragione ai sanitari appellandosi al principio del migliore interesse del paziente. Anche l’intervento del governo italiano, che ha dato la cittadinanza a Gregory per cercare di trasferirla in Italia, è stato inutile: secondo i giudici l’Italia non poteva avere giurisdizione sul caso, e hanno confermato i provvedimenti già presi nei giorni precedenti.
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Il tentativo del governo italiano e la disponibilità dell’ospedale Bambino Gesù di assistere Indi Gregory hanno aperto diversi interrogativi su cosa avrebbero potuto fare in concreto l’Italia. La cittadinanza data dal governo e gli interventi dei legali italiani potevano far sembrare che ci fosse una soluzione alternativa, eppure in Italia le regole sul consenso informato e sul fine vita non sono molto diverse da quelle britanniche. E peraltro il fatto che Indi Gregory fosse diventata cittadina italiana non ha cambiato molto le cose, la scelta del governo era più che altro simbolica e politica.
In Italia non esiste l’eutanasia diretta, che consente a medici di far finire la vita di un paziente che lo richiede. La legge 219 del 2017, però, da la possibilità di sospendere le terapie di sostentamento vitale: la sospensione dei trattamenti viene garantita dai medici solo dopo aver informato in modo esaustivo i pazienti. La sospensione non significa l’interruzione di qualsiasi tipo di trattamento: si inizia la terapia del dolore con alcuni farmaci e con un supporto psicologico, allo scopo di alleviare le sofferenze tramite le cosiddette cure palliative.
Nel caso dei minori il consenso informato, cioè l’approvazione dell’interruzione delle cure, è responsabilità dei genitori, ma non in tutti i casi. Sia le persone minorenni che quelle incapaci di intendere o di volere hanno diritto alla comprensione e alla decisione in merito alla loro salute. Quindi i medici devono metterle nelle condizioni di esprimere le loro volontà. Il consenso vero e proprio spetta poi ai genitori o ai tutori, ma deve essere espresso sulla base della volontà dei pazienti. In qualsiasi caso i genitori devono avere come unico obiettivo il benessere dei bambini.
La questione è più complicata nel caso dei neonati o dei bambini che non hanno ancora sviluppato capacità cognitiva. La loro incapacità di giudizio è di tipo naturale: di fatto non sono ancora in grado di esprimere un consenso. Anche in questo caso la legge prevede che i genitori insieme ai medici decidano nell’esclusivo interesse del bambino. In questa fase il contributo dei medici è essenziale: devono informare i genitori con attenzione e chiarezza sullo stato di salute dei bambini, sulle cure possibili e sulle eventuali conseguenze.
In caso di conflitto tra medici e genitori anche in Italia intervengono i giudici. L’articolo 3 della legge 219 del 2017 dice che «nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata». Anche se non è facile esprimersi su una materia così delicata, i giudici devono considerare quali siano i benefici garantiti da una terapia e quali siano le conseguenze per la qualità della vita dei bambini.