L’assassinio indiscriminato di civili, il blocco degli aiuti umanitari, l’uso di scudi umani e la punizione collettiva sono solo alcuni tra i crimini di guerra commessi nello scontro tra Israele e Hamas. Per le Nazioni Unite, esistono prove evidenti che incriminano sia lo stato israeliano sia i miliziani ed entrambi dovrebbero rendere conto delle loro azioni davanti alla Corte penale internazionale. Ma si può parlare di genocidio?
Alcuni funzionari israeliani hanno parlato di “genocidio” per descrivere il massacro di civili compiuto da Hamas il 7 ottobre. Ma soprattutto si è fatto riferimento a un genocidio in relazione alla campagna di bombardamenti massicci e all’invasione di terra dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, in cui sono stati uccisi più di 11 mila palestinesi, in gran parte civili.
Nelle scorse settimane in molti hanno fatto riferimento ai bombardamenti e all’invasione israeliana della Striscia di Gaza come a un genocidio. Anche alcuni leader di paesi islamici, come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, lo hanno detto esplicitamente. In tutti questi casi, però, si è sempre fatto riferimento alla definizione politica e non giuridica di genocidio, quella che viene usata per esprimere un particolare orrore nei confronti dell’uccisione di massa di civili. Mentre la definizione di genocidio codificata dal diritto internazionale è contenuta nella cosiddetta Convenzione sul genocidio, un trattato internazionale approvato dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1948.
La Convenzione del 1948 fornisce la definizione formale di genocidio, sulla base della quale gli organismi internazionali stabiliscono la presenza o meno di un atto di genocidio, e le eventuali responsabilità e punizioni, che sono stabilite dai tribunali internazionali. «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro».
Le condizioni decise dalla Convenzione per parlare di genocidio sono piuttosto precise e non sembrano lasciare molto spazio a dubbi, ma c’è un elemento che rende tutto più complicato, che è «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale». In pratica significa che per parlare di genocidio deve essere provato che chi ha commesso l’atto avesse l’intenzione di sterminare un gruppo di persone in quanto tale. Per questo la Shoah è definita un genocidio: l’obiettivo del regime nazista era sterminare sistematicamente il popolo ebraico in quanto tale. Mentre è molto più difficile attribuire questa definizione a un grande massacro di civili compiuto nel corso di una guerra.
Anche per questo, dall’approvazione della Convenzione del 1948 a oggi, i casi in cui il crimine di genocidio è stato riconosciuto a livello internazionale e perseguito dalla Corte penale internazionale sono soltanto tre: il genocidio cambogiano compiuto dai Khmer Rossi alla fine degli anni Settanta, il genocidio in Ruanda del 1994 e il massacro di Srebrenica in Bosnia nel 1995. Nel corso degli ultimi decenni ci sono stati anche altri casi di massacri che potrebbero far pensare a un genocidio, ma nessuno è stato definito come tale perché non è stato possibile stabilire con sufficiente certezza nei tribunali internazionali che i crimini sono stati compiuti con «l’intenzione» di distruggere un gruppo.