Guai in vista per il governo israeliano. Mentre si districa tra la pressione internazionale per le vittime civili della guerra scatenata dopo il 7 ottobre e le proteste interne sul fallimento degli obiettivi dichiarati, deve anche affrontare l’imminente decisione della Corte penale internazionale de L’Aja che, secondo indiscrezioni, nel corso della prossima settimana sarebbe pronta a chiedere l’arresto del premier Benjamin Netanyahu, del ministro della Difesa Yoav Gallant e del capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf) Herzi Halevi.
La mossa del procuratore della Corte penale internazionale, Karim Kha, attesa in settimana stando al racconto delle fonti, è legata alle azioni compiute sia da Hamas sia dall’esercito israeliano a partire dal 7 ottobre scorso. Questa, oltre ad avere conseguenze dirette nei confronti dei personaggi coinvolti rappresenterebbe un pesante colpo all’immagine internazionale di Israele con il rischio di incriminazioni multiple per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità.
Da quanto si apprende, lo sforzo profuso dai vertici israeliani per evitare i mandati d’arresto è massimo. Al centro delle operazioni, secondo quanto risulta al Times of Israel, c’è il Consiglio di Sicurezza Nazionale, ma si è mobilitato anche il ministero degli Esteri. Le pressioni sui magistrati de L’Aja non si esaurisce all’interno dei confini dello Stato ebraico, ma arriverebbe anche dagli alleati di Tel Aviv. Uno su tutti: gli Stati Uniti. Gli Usa che come Israele non sono tra i 124 paesi che hanno firmato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, sono impegnati nello sforzo di bloccare i mandati di arresto.
Il massacro operato dai membri di Hamas il 7 ottobre potrebbe comunque essere oggetto d’indagine della Corte penale internazionale, senza escludere, inoltre, altre azioni messe in atto nei giorni successivi e che possono configurarsi come crimini di guerra: ad esempio la cattura di ostaggi civili portati nella Striscia di Gaza. A far pensare che le indiscrezioni abbiano del fondamento arrivano anche le parole dello stesso Netanyahu che sui social ha dichiarato che qualsiasi intervento della Corte Penale Internazionale «creerebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie che combattono il terrorismo selvaggio e l’aggressione sfrenata». «Sotto la mia guida – ha poi aggiunto – Israele non accetterà mai alcun tentativo da parte della Corte Penale Internazionale di minare il suo diritto intrinseco all’autodifesa. La minaccia di sequestrare soldati e funzionari dell’unica democrazia del Medio Oriente e dell’unico Stato ebraico al mondo è scandalosa. Non ci piegheremo».
Nonostante Israele, così come gli Stati Uniti, non sia firmatario dello Statuto di Roma del 1998 che ha permesso la nascita della Corte nel 2002, chi ne fa parte è invece la Palestina. Proprio le campagne militari di Israele nella Striscia di Gaza, prima Piombo Fuso e poi l’ancora più sanguinosa Margine di Protezione, spinsero l’Autorità Nazionale Palestinese a chiedere alle Nazioni Unite di poter entrare a far parte del gruppo di 124 Stati che hanno aderito allo Statuto, accettando, tra le altre cose, di favorire le indagini della Corte sul proprio territorio, in questo caso quello riconosciuto dalle Nazioni Unite secondo i confini precedenti al 1967. Così, dal 1 aprile 2015, dopo la conferma dell’allora segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, la Palestina è entrata ufficialmente a far parte della Corte Penale Internazionale. Già allora la decisione fece arrabbiare Israele che, come ritorsione, decise di congelare 106 milioni di euro di tasse raccolte per conto delle autorità palestinesi.
La giurisprudenza della Corte Penale Internazionale prevede che a essere indagati possano essere gli atti compiuti sul territorio di un Paese firmatario, ma basta che ne venga ravvisato solo uno all’interno dello stesso contesto per poter estendere le indagini anche a quelli a esso collegati compiuti in territorio di Paesi terzi. È per questo che il procuratore Khan ha potuto investigare sull’operato di Israele, che ha compiuto le presunte violazioni a Gaza, e soprattutto potrebbe anche perseguire i vertici di Hamas che hanno compiuto uccisioni sommarie di civili in territorio terzo, ossia Israele, ma hanno poi ‘spostato’ il crimine in territorio palestinese portando gli ostaggi nella Striscia.
Se la Corte Penale Internazionale decidesse di spiccare un mandato d’arresto nei confronti dei vertici israeliani e di Hamas, arrivare a conseguenze concrete e tangibili non sarà comunque semplice. La Corte non dispone di una sua forza di polizia, ma fa affidamento sulla collaborazione degli Stati firmatari. Non essendo Israele membro dello Statuto di Roma, Netanyahu e gli altri vertici non correrebbero alcun rischio finché rimangono in patria o in Paesi terzi rispetto allo Statuto, un po’ come accade per Vladimir Putin, anche lui raggiunto da un mandato di cattura internazionale. Certo è che la loro possibilità di movimento ne risentirebbe molto e, soprattutto, sarebbe complicato pensare di governare un Paese senza potersi recare nella maggior parte dei Paesi stranieri, con la propria reputazione internazionale che subirebbe un duro contraccolpo.