Oggi sembra che sia ritornato l’inverno. Siamo a fine aprile. Da poco ho finito di leggere Noi lazzaroni di Saverio Strati. Guardo il vento fuori che si agita fra gli alberi, e mi sembra di sentire sulla pelle il tocco della sua scrittura epidermica, vigorosa, a tratti delicata e lirica, distesa nella contemplazione di attimi inaspettati di pace ma spesso nervosa, aspra, dolente, energica come un grido disperato.
Il protagonista di questa storia parla in prima persona. È un muratore immigrato in Svizzera per sfuggire alla fame e alla nera miseria della sua terra di origine: la Calabria. È uno dei tanti che è andato in cerca di un futuro migliore, per sé e i suoi cari. Non per il bisogno di viaggiare, anche se sentiva il desiderio come tutti i giovani di conoscere il mondo, ma per trovare una via d’uscita da un’esistenza insostenibile. Per una ragione inspiegabile, dopo tanti anni di assenza, torna al paese. È estate. Lascia la moglie e i figli, un amante giovane, e parte da solo. Per un’urgenza che non comprende. Il suo non è un ritorno ai luoghi felici né un percorso di liberazione. Ciò che ha vissuto ha lasciato cicatrici troppo profonde. A volte si sveglia nella notte e ripensa a quanto ha sofferto. Alla sua terra lo lega, ne è consapevole, un rapporto di amore e odio. La Calabria che incontra nel suo viaggio è bellissima per il suo mare, ma è una terra di drammi e nodi irrisolti. L’unica possibilità di riscatto che avverte è nella parola, nel bisogno di raccontare, ed è per questo che non tace nulla né del suo passato né del suo presente.
Siamo negli anni Settanta. È ormai un uomo ormai maturo, nato in un mondo che non c’è più. La sua gioventù è stata terribile. Al paese qualunque speranza di futuro era negata. C’era il fascismo, la guerra, la dittatura, il baronato. I contadini erano sfruttati dal barone, gli operai dalle imprese che facevano affari pagandoli poco e arricchendosi sulla loro pelle. Quelli come lui erano destinati a una vita di miseria. Con la Repubblica, però, la realtà non era cambiata. Per farsi votare alla fine della guerra li avevano illusi di cambiamenti che non c’erano stati. Tutto era rimasto come prima. Non gli era rimasta altra possibilità che quella di migrare. Ora, a distanza di anni, fa i conti con il suo vissuto, e dentro di lui grida, a tratti con violenza, la voce dei lazzaroni del Sud, dei figli dei contadini e degli operai, che per campare erano stati costretti a sradicarsi. La sua coscienza, non anestetizzata dalla vita agiata che ha conquistato a caro prezzo, urla. È animata da un autentico bisogno di verità. Non si riconosce nella letteratura di élite. Per lui e quelli come lui è incomprensibile, scritta per pochi. È un sapere che non rende liberi ma opprime, come il benessere che crea falsi bisogni per rendere di nuovi i lazzaroni servi. Egli lo ha capito, e si duole di non aver fatto la rivoluzione. Sogna un mondo che non è nato, e vede invece le spoglie di quello in cui è cresciuto, che sopravvive nella mentalità della sorella, nelle ombre di quelli che sono rimasti, nel paese abbandonato che si ripopola d’estate e si spopola d’inverno.
Quel mondo che non c’è più lo tormenta. È un male dal quale non ci si può liberare. Le figure del padre e della madre lo ossessionano. Sono morti ma vivono con le loro parole, con i loro duri dialoghi di sofferta incomprensione. Il padre, prematuramente scomparso, aveva fatto di tutto per insegnargli il mestiere. Non si era mai mosso dal paese ma aveva capito ogni cosa della vita. La madre invece lo richiama ancora nel presente alle sue responsabilità di uomo, al peso di dover diventare anzitempo il capofamiglia, di dover sfamare sé stesso, lei e i fratelli. Un passato pesante come un fardello, impossibile da dimenticare, che non gli lascia nessuna possibilità di ritorno, neanche alla sua nuova vita dove lo attende la moglie, specie dopo la scoperta di un figlio nato diciannove anni prima, di cui non sapeva nulla.