Oggi fra i miei libri ritrovo Una morte dolcissima di Simone de Beauvoir nella bella traduzione di Clara Lusignoli. È lì fra fogli, articoli di giornali, carte varie. Ricordo ancora il mattino in cui l’ho acquistato: ero in piazza Santo Spirito a Firenze. L’ho letto in più giorni, fra un caffè e l’altro. Seduto al tavolino, ora in un bar ora in un altro. Stare fra la gente mi aiutava a smorzare in me l’eco della scrittura: dura, profondamente dolente, incisa sulla carta con il taglio di un bisturi.
La trama è semplicissima: la scrittrice il 24 ottobre 1963 riceve una telefonata. È a Roma, in una camera d’albergo, per lavoro. Le telefonano da Parigi per dirle che la madre ha avuto un incidente. Da qui comincia tutta la vicenda fino alla morte stessa della madre. È chiaro che l’autrice mescola un’esperienza autobiografica a pochissima finzione. Tocca fin dalle prime righe il suo vissuto, la sua storia personale come donna, il rapporto con i genitori, specie con la madre:
[…] Mentre discorrevamo nella penombra, si placava in me un vecchio rimpianto: riprendevo il dialogo interrotto durante l’adolescenza; un dialogo che le nostre divergenze e la nostra somiglianza non ci avevano mai permesso di riallacciare. E l’antica tenerezza, creduta ormai del tutto spenta, tornava a vivere, da quando le era possibile d’insinuarsi in parole e gesti semplici. […]
La scrittrice parla di sé, della sua famiglia, e parallelamente con rapidissime pennellate delinea un quadro estremamente efficace della Parigi del primo Novecento. Centrale è la sua critica al mondo moderno, alla società della tecnica. Simone sa che la madre è destinata a morire. Vorrebbe impedire che la operino ma non ci riesce. Dinanzi al medico, al suo sapere tecnico indietreggia (p. 55). Si fa vincere, rinnega la sua morale. Subisce, in una irrimediabile sconfitta che paga con un grande senso di colpa, la ‘morale sociale’ (p. 56):
[…] – No, – mi disse Sartre, – vi ha vinta la tecnica: ed era fatale -. Infatti: ci si trova presi in un ingranaggio, impotenti davanti alla diagnosi degli specialisti, alle loro previsioni e decisioni. Il malato è diventato di loro proprietà: provatevi a strapparglielo! […]
Pagina dopo pagina, con una scrittura asciutta, cruda in molti passaggi, che non esita a riferire i dettagli più sofferti della degenza della madre in ospedale, la scrittrice ne racconta la malattia, gli ultimi istanti di vita. Ai luoghi chiusi dell’ospedale in molte passi si contrappongono i rapidi flashback in cui affiora il passato della donna, il suo temperamento, la sua natura ‘priva delle gioie del corpo’, di ogni ‘vanità’ (p.38); il suo carattere orgoglioso, testardo, a volte collerico ma allo stesso tempo solare (non ‘smetteva mai di cantare, scherzare, chiacchierare’). Era il suo modo per soffocare – come scrive la scrittrice con una felicissima definizione – ‘sotto il chiasso le proteste del cuore’.
La scrittura tagliente, limata fino all’osso, dall’inizio alla fine di questo racconto lungo, tradisce la ferrea volontà di Simone di esorcizzare il caso fortuito (p.102) della morte, la sua ‘indebita violenza’, a cui ogni uomo suo malgrado è costretto ad acconsentire.