Non è inusuale che vi siano anni in cui le produzioni cinematografiche hollywoodiane siano investite da una sorta di trend per le tematiche. Nelle ultime stagioni sono abbondate le produzioni riservate a tematiche musicali, non estese semplicemente alle biografie di celebri artisti del panorama musicale americano ma anche al racconto di storie riguardanti la realtà musicale, e personaggi appartenenti a essa. Tuttavia, non si tratta di un trend recente e sono numerosi – e curiosi – i precedenti che hanno visto addirittura autentici protagonisti gli stessi amatissimi brani pop di sempre, eternati dallo straordinario e imperituro fascino dei sogni di celluloide.
Gli Amici di Peter di Kenneth Branagh (Girls just want to have fun, R. Hazard, Cyndi Lauper). Il film del ’92 potrebbe essere Il Grande Freddo dieci anni dopo, con un cambio di scenario – non più la grande provincia americana, ma la campagna inglese – e un cambio di generazione; non più quella “reduce” degli anni Sessanta e tutto sommato ancora fiduciosa e bisognosa di ideali e solidarietà, ma quella reduce dagli anni Ottanta, corrosa dal cinismo, dai postumi dello yuppismo, dall’ansia di fare soldi. Senza solidarietà, con molte incomprensioni e qualche incubo, per esempio l’Aids. E ovviamente è cambiata anche la musica. Non più il soul, non più la voce sensuale di Marvin Gaye. Al suo posto c’è la vocina allegra e spensierata di Cindy Lauper che invita le ragazze a una forma di liberazione piuttosto semplice: uscire di casa e andarsi a divertire, anche se la mamma alza gli occhi al cielo e il papà sbuffa. Girls just want to have fun è la canzone che ha lanciato la Lauper, con la sua faccetta buffa e simpatica, i suoi capelli arancioni, le tonnellate di braccialetti e ninnoli che si portava addosso e quella curiosa vocina che le ha dato non pochi grattacapi. Intorno al ’77, quando la giovane newyorkese cantava con la band dei Flyer, perse completamente la voce; dopo essere stata operata, i medici le dissero che non avrebbe mai più potuto cantare, ma lei, testarda, si mise a studiare canto e riuscì a trovare completamente la forma, tanto da poter debuttare qualche anno dopo con il suo primo album solista, She’s so unusual, che conteneva anche il brano in questione. Con il clip di quella canzone si guadagnò l’American Video Award, ma la rapida ed irresistibile ascesa di Madonna mise purtroppo in ombra la carriera dell’aspirante popstar. Che ha continuato a fare dischi, ha anche debuttato come attrice, persino come promotrice di incontri di wrestling professionistico, e ha cercato costantemente di far ripartire la sua carriera affidandosi al brano riproposto nel ’95 in una nuova versione completamente riarrangiata in chiave reggae.
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Saranno famosi di Alan Parker (I sing the body electric, M. Gore – D. Pitchford, L. Dean, I. Cara, P. McCrane, T. Parnell, E. Brockington). Meritatamente premiata con l’Oscar nel 1980, la musica del film di Alan Parker porta la firma di Michael Gore (che vince anche per la canzone Fame, scritta insieme a Dean Pitchford), una tastierista e compositore americano di formazione autodidatta, iniziato alla musica della sorella, Lesley Gore, cantante di discreto successo nella scena pop americana degli anni Sessanta. Seguendo le orme della sorella, Gore ha cominciato a frequentare il mondo della canzone e ascrivere i suoi primi motivi. Ma per entrare da vero professionista nel circuito dei compositori, ha in seguito frequentato l’Università di Yale e si è spinto fino a Parigi per seguire i corsi di musica classica tenuti da Max Deutsch. Dopo un breve soggiorno a Londra, è tornato negli Usa, a Los Angeles, dove ha incontrato Parker che ha deciso di affidargli la colonna sonora di Saranno famosi. In fondo Gore non era poi tanto diverso dai ragazzi della High School of Performing Arts di Manhattan dove è ambientato il film, ragazzi e ragazze in lotta per “sfondare” nel mondo dello spettacolo, come musicisti, ballerini o attori. Per scrivere le canzoni del film Gore coinvolse proprio alcuni degli studenti della scuola newyorkese in una serie di session semi-improvvisate, da cui ha poi tratto materiale utile alla colonna sonora, composta di musiche che variano molto, da brani quasi classicheggianti, fino all’arrangiamento dance di I sing the body electric, un brano “corale” interpretato da diversi protagonisti della pellicola, tra cui la cantante ispano-americana Irene Cara. Dopo il successo e i due premi Oscar, Gore è stato spesso richiamato a Hollywood; tra le altre colonne sonore da lui composte, quella di Voglia di tenerezza e di Pretty in pink.
Mahogany di Berry Gordy (Do you know where you’re going to, M. Masser – G. Goffin, Diana Ross). Nel 1972 la bellissima Diana Ross, stella nera del soul peso piuma, interprete dallo stile sofisticato e sentimentale, si guadagnò una nomination al Premio Oscar per la sua intensa interpretazione della grande cantante Billie Holiday, ritratta in Lady sings the blues nel momento del suo sofferto e tragico viale del tramonto, segnato dalla tossicodipendenza. Per la Ross il momento era magico. La cantante di Detroit aveva lasciato pochi anni prima, nel ’69, le leggendarie Supremes, il più popolare girl group di colore degli anni Sessanta. Berry Gordy, boss della Motown Records, aveva deciso di puntare alto su di lei, di trasformarla in una star dello spettacolo, non solo della musica. Le aveva aperto le porte della televisione, facendole condurre uno show tutto suo, Diana!, e aveva cercato di lanciarla ad Hollywood, producendo lui stesso l’ottimo film biografico. Confortato dal successo, Gordy aveva cercato di fare il bis producendo e firmando la regia di Mahogany nel 1975. Il film, che vede la Ross affiancata da attori come Jean Pierre Aumont, Anthony Perkins, Marisa Mell, è una sorta di soap opera molto patinata e ambientata nel mondo della moda, dove la cantante fa la parte di una ragazza di colore che tenta la fortuna come fotomodella, riesce ad affermarsi anche come stilista, ma poi, messa di fronte alla necessità di scegliere, rinuncerà a carriera e successo per non perdere il suo grande amore. Una bella favoletta, salvata dalla colonna sonora ricca di ottima musica soul e molte interpretazioni della Rossa (che con la canzone guida del film finì al primo posto delle classifiche Usa). Dopo Mahogany, la Ross provò nuovamente a fare del cinema, con The Wiz, una specie di versione black del Mago di Oz, dove accanto a lei compariva anche Michael Jackson, suo amico e “protetto”; ma dopo le accoglienze non proprio favorevoli riservate dalla critica, la divina Ross preferì tornare in pianta stabile alla musica.
Thelma&Louise di Ridley Scott (House of hope, T. Childs – D. Ricketts). Le donne che cercano la propria libertà in un mondo dominato da uomini, dove il potere è inderogabilmente coniugato al maschile, a volte devono essere disposte a mettere in gioco anche tutta la propria vita, se non vogliono tornare indietro, nel recinto delle certezze, dei conformismi, anche della noia. In messaggio finale di Thelma&Louise, film-culto degli anni Novanta e della cultura post-femminista, può apparire eccessivo oppure no. Resta il fatto che il film di Ridley Scott è il primo a consegnarci una storia on the road di fughe e inseguimenti tutta al femminile, dove anche due casalinghe in cerca di distrazioni possono diventare eroine ribelli ed eversive, con tutta la polizia dello stato sguinzagliata dietro, in un crescendo grottesco e spettacolare. Per un film che parla di donne libere – o comunque alla ricerca della propria libertà – una cantante altrettanto forte e libera nella propria creatività. Si tratta di Toni Childs, straordinaria cantautrice americana dalla voce profonda, quasi baritonale, emersa verso la fine degli anni Ottanta quando la scena musicale fu improvvisamente popolata da una gran quantità di donne musiciste, da Suzanne Vega a Tracy Chapman, da Sinead O’Connor a Tanita Tikaram. In comune con loro la Childs ha la capacità di sondare nel profondo de propri sentimenti, delle proprie paure, dei propri desideri, canta l’amore, la maternità, come pure la morte, la solitudine; con lei hanno collaborato artisti come Peter Gabriel, Robert Fripp, affascinati soprattutto dalla capacità della Childs di fondere il linguaggio del pop e delle tecnologie all’ispirazione, ai suoni e ai colori che le vengono dal suo amore per la musica etnica africana e asiatica.
Il fantasma dell’Opera di Terence Fisher A. Lloyd Webber – R. Stilgoe – M. Batt, Steve Harley, Sarah Brightman). Il cinema ha saccheggiato molto spesso nel corso della sua storia centenaria la leggenda del Fantasma dell’Opera, tratta dall’omonimo romanzo di Leroux che racconta la cupa vicenda di un compositore che viene sfigurato da un impresario che gli ha sottratto uno spartito per sfruttarlo come suo. Vive come un fantasma, nascosto nei sotterranei e nelle segrete dell’Opera, il volto deturpato nascosto dietro una maschera, ma un bel giorno he la sventura di innamorarsi senza speranza di una giovane cantante d’opera, un amore che lo porterà alla distruzione. La storia di Leroux ha ispirato un film di epoca muta; come pure la produzione barocca e technicolor firmata da Lubin che pure si guadagnò due Oscar per la fotografia e la direzione artistica; una versione horror quasi gore girata nell’89 da Dwight H. Little con protagonista Robert Englund, meglio noto come il Freddie Kruger della serie Nightmare, che regala un Fantasma disgustoso e repellente, con le carni sanguinolente in putrefazione sotto la maschera. Ma va citato senz’altro anche il Fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, che rivisita la leggenda in chiave rock nel ’74, facendosi realizzare le coreografie da Sissy Spacek; il suo diventa un vero film-culto, anche grazie alle musiche scritte dal protagonista Paul Williams. Ma la musica più nota nella lunga storia del Fantasma è probabilmente quella scritta da Andrew Lloyd Webber, il re Mida del musical inglese, che per la sua versione ha usato atmosfere quasi pucciniane cucinate in salsa pop. Webber, figlio di un compositore e di una pianista, è un enfant prodige della musica, ha studiato architettura e storia a Oxford dove ha conosciuto Tom Rice, col quale in seguito ha scritto alcuni dei musical più famosi degli ultimi vent’anni, da Jesus Christ Superstar a Evita. Nominato baronetto dalla Regina, Webber, diventato multimiliardario con gli incassi dei suoi lavori, è passato alla storia anche per essere il primo musicista che abbia fatto quotare le sue azioni in Borsa.
Fuga di mezzanotte di Alan Parker (Chase, G. Moroder – D. Castle). La colonna sonora del film del ’78 segnò il debutto nel mondo del cinema di Giorgio Moroder, tastierista, compositore e produttore italiano nato nel 1941 ad Ortisei. Alle spalle ha studi incompiuti all’Accademia di Belle Arti di Bolzano, abbandonata per dedicarsi a tempo pieno alla musica. La sua carriera è iniziata a Monaco, dove si è trasferito negli anni Settanta, trovando il successo nel circuito delle produzioni dance. È diventato una stella della disco-music, come cantante e come talent scout: Donna Summer praticamente l’ha scoperta lui, ha prodotto tutti i suoi maggiori successi. La disco-music gli ha portato lauti guadagni ma è il cinema che gli ha dato popolarità come musicista. Per Fuga di mezzanotte si è circondato di moog e di tastiere elettroniche, usate a tappeto per ricalcare l’atmosfera del film, densa di tensione: le musiche gli hanno fruttato il suo primo Oscar (ne ha ricevuti altri due, per le canzoni di Flashdance, 1983, e per Take my breath away, canzone-tema di Top gun, 1986). Quest’uso costante e generoso di tastiere elettroniche, mescolato a un discreto gusto melodico e una certa sensibilità rock, è diventato la sua cifra stilistica, applicata alle musiche di film come Cat People di Paul Schroeder, Scarface di Brian De Palma, La storia infinita di Wolfgang Petersen, Superman III di Richard Lester, Electric dreams di Steve Barron, concepito come una storia lungo videoclip musicale. Nell’84 Moroder ha tentato l’operazione più ambiziosa, e “artistica”, della sua carriera, acquistando i diritti del capolavoro di Fritz Lang, Metropolis, che ha rieditato in una nuova versione “colorata” e con le musiche interamente riscritte da lui stesso. L’operazione ha suscitato non poche perplessità, ma non ha certo frenato l’ascesa di Moroder, ormai emigrato in quel di Beverly Hills, dove oltre a scrivere colonne sonore ha firmato pure l’inno delle Olimpiadi di Los Angeles e di quelle di Seul, e quello dei Mondiali di calcio in Italia nel 1990.
Lettera a Breznev di Chris Bernard (Hit that perfect beat, Bronski – Steinbachek – Foster, Bronski Beat). Un piccolo film culto del nuovo cinema britannico degli anni Ottanta, una storia già in odore di Glasnot, girata da un giovane regista che l’ha ambientato a Liverpool, luogo magico dell’immaginario musicale, ma anche città devastata dagli anni del thatcherismo e dalla voragine della disoccupazione. In questo scenario di ordinario degrado sboccia la love story tra due ragazze inglesi di estrazione proletaria e due marinai russi in libera uscita, incontrati una sera in discoteca. Quando la loro nave ripartirà, una delle due ragazze, Elaine, pur di non rinunciare al suo sogno d’amore scriverà una lettera a Breznev chiedendogli aiuto, e il premier sovietico, intenerito, le manderà il biglietto aereo per Mosca. Un po’ di favola per introdurre l’aria di perestroijka che allora ottimisticamente circolava. Il crollo del Muro era ancora di là da venire, in quei primi anni Ottanta che sul fronte musicale erano dominati dal neo-romanticismo e dal trionfo del pop inglese, in particolare del gusto sintetico dell’elettro-pop, in un tripudio di band che si proponevano al pubblico armate esclusivamente di tastierine elettroniche. Così anche i Bronski Beat, un trio londinese che aveva il suo punto di forza nella voce in falsetto, sottile ma imponente di Jimmy Sommerville. Nel giro di appena un paio d’anni, a cavallo tra l’84 e l’86, i Bronski Beat scrissero un capitolo non secondario della dance music britannica, giocando molto sull’appeal proletario suburbano, tracciato dal videoclip d’esordio Smalltown boy, e sulla loro appartenenza dichiarata alla cultura omosessuale, che ili fecero diventare una delle band più gettonate nelle gay-disco: capitolo finale di questa breve saga, il remake in chiave dichiaratamente “omo” di un vecchio successo di Donna Summer, Love to love you baby, inciso da Sommerville insieme a un’altra star dell’elettro pop, Marc Almond.
Quattro matrimoni e un funerale di Mike Newell (You are the first, the last, my everything, White – Sepe – Radcliffe, Barry White). A vederlo dirigere la sua Love Unlimited Orchestra di quaranta musicisti con ampia sezione di archi, e sentirlo cantare cose come “non ne ho mai abbastanza del tuo amore, baby”, con la sua voce cavernosa e sensuale, è difficile immaginare che Barry White, il re della disco music sentimentale, abbia avuto un passato turbolento di adolescente ribelle cresciuto in riformatorio nella East Side di Los Angeles, dove la sua famiglia si era trasferita negli anni Cinquanta abbandonando il nativo Texas. Anche in quegli anni White frequentava con passione la musica nera, cantava nel coro della chiesa, imparava a usare il pianoforte; il suo debutto è avvenuto a soli undici anni, quando ha accompagnato al piano Jesse Belvin in una canzone, Goodnight My Love, finita anche in classifica nel ’55. Ma sarà solo negli anni Settanta che la poderosa stazza di White e il suo vocione diventeranno popolari in tutto il mondo. Dopo aver militato in gruppi rhythm’n’blues come gli Upfronts, ed essersi guadagnato da vivere esibendosi nei locali di Los Angeles, White scopre un trio vocale femminile, le Love Unlimited, in cui militava anche la sua futura moglie Glodean James. Diventa il loro manager e produttore, le affianca alla celebre orchestra, si diverte a inserire anche la propria voce in uno stacco di Walking in the rain with the one I love. Da lì a decidere di debuttare come solista, il passo è breve. L’era è quella della disco music, e White non si tira indietro: gli arrangiamenti dei suoi brani sono ritmati quanto basta perché approdino anche in discoteca, i testi sono esplicitamente sentimentali con sconfinamenti quasi erotici, e non c’è suo successo, da Never gonna give you up a You’re the first, the last, my everything, che non abbia fatto ballare le coppiette in quegli anni e ancora adesso, facendo guadagnare a Barry White l’ambito titolo di “Mr. Love”.
Young Americans di Danny Cannon (Play dead, J. Wobble – B. Gudmundsdottir – D. Arnold, Bjork). La chiamano anche “la regina dei ghiacci pop” perché Bjork, minuta come un elfo ma con una voce capace di frantumare i cristalli, arriva dalla fredda Islanda, una terra che era conosciuta per i geyser e poco più, prima che lei si affacciasse alla ribalta della scena pop internazionale assieme alla sua band, i Sugarcubes. Bjork Gudmundsdottir canta da vera professionista da quando aveva solo undici anni e d’estate, per guadagnare qualcosa, si esibiva in concertini jazz all’aperto. Una hippie nel cuore, a quindici anni Bjork è andata a vivere da sola, ha girovagato da un mestiere all’altro, da una band all’altra. Ha fatto breccia nel difficile e diffidente mercato anglosassone, sciogliendo ogni freno al suo carattere eclettico, al suo istinto stravagante. È diventata un’icona del pop alternativo degli anni Novanta, subito riconoscibile non solo per il suo look curioso, che gioca con i suoi lineamenti infantili, ed è sempre aggiornatissimo sulle ultime tendenze dello “street style”, ma anche per la sua forte personalità, sempre in movimento, sempre al lavoro su nuovi progetti, sempre pronta a stupire. Nei suoi dischi solisti, Debut e Post, diversi generi si mescolano e si sovrappongono in una sintesi bizzarra e affascinante di rock, pop, jazz, persino techno. Affascinato da “tutto ciò che non è scontato”, Bjork ha preso parte a diverse colonne sonore, tra cui quella di Tank girl (film tratto da un fumetto-cult inglese). Di lei e del suo carattere bizzarro si era infatuata anche Madonna, che le aveva chiesto di scriverle alcune canzoni. Bjork ne scrisse una sola, quella però che alla fine ha dato il titolo a tutto l’album di miss Ciccone: Bedtime stories.
Antarctica di Khoreyoshi Kurahara (Theme from Antarctica, Vangelis). A metà strada tra la fiction e il documentario naturistico-ecologico, Antarctica è una produzione giapponese del 1985 girata tra i banchi di ghiaccio eterno del circolo polare artico dove i protagonisti sono un gruppo di cani da slitta abbandonati da una spedizione. La loro lotta per la sopravvivenza è scandita dalla musica, ricca di suspense, di momenti di attesa e di ritmi ripetitivi che preparano l’azione drammatica. Musica che porta la firma pluridecorata di Vangelis, compositore greco tra i più gettonati dalle produzioni cinematografiche. Vangelis, che in realtà si chiamava Evangelos Papathanassiou, tra gli anni ’60 e ’70 è stato leader e arrangiatore del più celebre gruppo rock ellenico, quegli Aphrodite Child in cui militava anche Demis Roussos. Ma Vangelis aveva obiettivi più ambiziosi. Sciolta la band, e trasferitosi a Parigi, ha cominciato subito a comporre per il cinema e la televisione, sotto l’ala protettrice del regista Frederic Rossif. Il giovane musicista greco, che in realtà non sa leggere la musica – “faccio tutto a memoria e faccio tutto da me” ha dichiarato più volte – con le tastiere elettroniche, i sintetizzatori e un po’ di improvvisazione ha creato uno stile che ha lasciato il segno. La colonna sonora di Orizzonti di gloria, premio Oscar nel 1981, gli ha spalancato le porte di Hollywood, il successo americano gli ha portato compensi altissimi e molti ingaggi da parte di diversi artisti pop che lo richiedono come produttore e come tastierista: da molti anni, ad esempio, è impegnato in una proficua collaborazione con l’ex leader degli Yes, Jon Anderson. Il cinema in questi ultimi anni è diventato solo una piccola parte della sua attività, ma pure è quella che gli ha reso i maggiori riconoscimenti della carriera: e la colonna sonora composta per Blade runner di Ridley Scott resta una delle più belle mai realizzate nella storia del cinema.