Siamo nel 1932, in pieno regime fascista. A Roma. Antonio Magnano è un giovane bellissimo. Siciliano, catanese. Di buona famiglia attende invano di ottenere un posto di lavoro al Ministero degli esteri. A un certo punto si sente invaso da una ‘strana malinconia’. Ritorna a Catania, si sposa. Tutti, compreso il padre, gli attribuiscono continue avventure galanti, dal sapore epico, leggendario, avute sia nella capitale sia nella terra d’origine. Tale modo di comportarsi rientra in quello che è il codice d’onore non solo del siciliano del tempo ma anche dell’uomo di quegli anni: è segno, infatti, di virilità andare al lupanare, avere relazioni con le mogli degli altri, ecc. Antonio, però, non è ciò che sembra di essere. Al contrario di ciò che si dice di lui, egli è di un candore verginale. Dopo tre anni di matrimonio trapela inaspettatamente la notizia che la moglie è illibata. Da quel momento il giovane da idolo diventa oggetto di disprezzo ed esclusione sociale. Il mondo dell’apparenza in cui era vissuto crolla, si spalanca dinanzi a lui quello reale, in tutta la sua tragicità.
Irreale non è solo la vita di Antonio, ma anche quella dei suoi concittadini. Abituati alla pratica del pettegolezzo, e assuefatti da finti valori come quello dell’onore e del sesso, non si accorgono di quanto accade intorno a loro, cioè di vivere in un Regime che alimenta tale cultura, volta a un’etica del disimpegno civile, dell’individualismo, e di un falso perbenismo.
Antonio è insomma solo con il suo dramma. Si chiude nel silenzio. Né il padre né le persone che gli sono più care (tranne forse lo zio e la madre) riescono a comprendere la natura della sua anima. La famiglia e la Chiesa vengono meno al loro ruolo e si adeguano al modo di pensare comune. La prima non educa ad affetti sinceri, la seconda instilla un’idea di vita cristiana basata sulla forma e sull’adempimento di tutta una serie di riti formali. Condanna la sessualità (come nota Alfio, il padre di Antonio) ma è pronta a sciogliere il matrimonio fra i due giovani, in quanto la loro relazione è solo spirituale e non hanno consumato carnalmente. Perfettamente a suo agio in questo mondo è la moglie di Antonio, Barbara, la quale non esita a crocifiggere il marito (non prova alcun senso di colpa per il male che gli fa) dinanzi a un’intera città per potersi risposare con un uomo ricchissimo, per pura convenienza familiare. Anche qui la verità è nascosta dalla finzione, dalle parvenze del codice sociale. Barbara sembra buona, come intuisce padre Raffaele, il confessore della madre di Antonio, ma in realtà non lo è (pp. 144-145):
[…] «Vuol dire» rispose il prete, cadendo anche lui in un’altra tortura, di non poter usare le parole che gli venivano prime alla bocca, « vuol dire un cuore che Dio ha creato per confondere noi poveri sacerdoti, un cuore in cui non ci si raccapezza e non si capisce nulla! Tutti i suoi sentimenti sono in regola, non non dovremmo che approvarli e ammirarli, e nondimeno » aggiunse, invermigliandosi bruscamente di tutto il suo sangue d’uomo di paese, «e nondimeno se dovessi ascoltare il mio sentimento, e non il mio giudizio, quella ragazza» e questo lo disse quasi gridando, «in chiesa non la farei entrare nemmeno morta!» […]
L’impotenza di Antonio non ha effetti solo sulla sua vita privata ma anche su quella pubblica della città. Il cugino, diventato podestà grazie a lui, dopo una lite con alcuni esponenti del Partito fascista, si dimette dal suo ruolo. Anche questa parte del romanzo rientra nella dialettica finzione/verità. Via via che la verità prende il sopravvento sulla finzione è sempre più difficile arginarne la forza demolitrice. Il Regime poco a poco mostra la sua vera faccia. Si fa strada un altro uso della parola, non mistificatoria ma aperta, scomoda, autentica. Quella che tutti noi dovremmo praticare (credo ci suggerisca Brancati fra le righe con un tono leggero, affabulatorio, ironico, ma non per questo meno drammatico) nella nostra vita privata e pubblica se davvero vogliamo essere liberi. Allora come oggi.