I “dannati” del mondo moderno non sono più i peccatori, ma gli ultimi della terra. Non li si incontra nell’Inferno, ma nelle strade delle nostre città, o su un tram in una notte di Natale. Gli ultimi sono tutti uguali, anche se hanno un colore diverso della pelle. Ad accomunarli sono i corpi segnati dalle fatiche e dagli abusi che gli hanno inflitto coloro che si considerano migliori e li disprezzano. Mentre questi nella notte di Natale sono nelle loro case a festeggiare, loro invece a uno a uno salgono su un tram, dove si incontrano e trovano qualcosa di inaspettato, che non dimenticheranno più. Come nelle anabasi antiche compiono un viaggio non solo nello spazio fisico di una città senza nome, ma anche nelle loro vite, nei loro ricordi e nelle loro delusioni.
“Il tram di Natale” è un racconto lungo e consta di poco più di cento pagine. È breve, ma denso. Ha un ritmo serrato, misurato, interiore, a momenti poetico, lirico. La narrazione scorre piana e capitolo dopo capitolo illumina di compassione umana le drammatiche figure, che a ogni fermata escono dall’ombra notturna della città, e salgono sul tram, dirette non sanno nemmeno loro dove. Lì fra realtà e finzione si raccolgono come in un grembo, che accoglie le loro sofferenze, l’amarezza di non essere amati, di essere esclusi da tutto e da tutti, e di essere fonte di ribrezzo per gli altri a causa della loro miseria. I primi a comparire sulla scena sono un uomo e una donna: lei è di pelle nera ed è una prostituta; lui invece è un bianco avanti negli anni. Entrambi sono affamati: lui di amore, lei di pane ed entrambi sono affaticati dalla vita, travolti in una sordida e oscura esistenza. Poi arrivano gli altri e tutti sono immersi nelle proprie vite, nella solitudine del proprio dramma, finché la prostituta non si accorge che c’è a bordo un neonato abbandonato. Si radunano intorno a lui, attratti da una luce, un’energia che non sanno da dove viene, e lo difendono con i loro corpi martoriati dai Volontari della Patria, il cui unico piacere è vessare i più deboli.
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Calaciura in questo libro si interroga sul perché del dolore e partecipa per quelli che non hanno nulla, per i rifiutati della nostra società. Lo fa, però, senza scadere nel patetico, ma con una scrittura animata da un sentire profondo, dalla consapevolezza che al perché della sofferenza umana non c’è una risposta, e anche con la speranza di riuscire in qualche modo a trovarla. Dinanzi alle ingiustizie sociali lo scrittore non ha né l’atteggiamento del credente né del non credente. Non le guarda dall’alto in basso, ma entra per un sentire istintivo nell’esistenza dei suoi personaggi, nella loro disillusione, e nel loro di desiderio di vedere nel bambino qualcosa di prodigioso, di epifanico, una presenza del divino (p. 79):
[…] Da giorni ragionava sull’ingiustizia della vita e della morte, sull’indifferenza di Dio e sull’incapacità degli uomini di governarsi nella loro solitudine. Ogni cosa le sembrava sbagliata, e ogni ferita le sembrava sanguinasse di più. La tormentava il pensiero di non riuscire a risarcire la dignità della morte – della vita- della sua amica: anche lei apparteneva alla schiera dei dimenticati. Per sofferenza, rassegnazione, per aver camminato sempre ai margini delle strade di periferia.
Solo a partire da loro, pensava, dalla redenzione degli ultimi, tutti gli altri avrebbero potuto salvarsi. […]
L’interesse di Calaciura per la condizione dei più deboli è autentico. Non cade mai in descrizioni oleografiche, né in dettagli cronachistici. Egli è attento alla realtà, al mondo che è intorno a lui, e la scrittura non è una fuga dal quotidiano, ma non ha neanche i toni accesi della denuncia. Non vuole rappresentare le cose nella loro conflittualità, ma nel loro flusso perenne, nella loro emersione improvvisa e inaspettata, e forse anche nella loro tragica fatalità. È attento alla realtà, ma non è uno scrittore realista. Non ha soluzioni ai drammi sociali che rappresenta da proporre, ma è carico di compassione umana, di dubbi, di domande che pone a sé stesso e al lettore.
Al contrario la realtà nella sua scrittura assume tratti immaginifici e di alto valore simbolico. Il tram viaggia nella notte di Natale e la sua corsa nelle tenebre è rischiarata da brevi lampi di luce, da una speranza sottotraccia che è tanto più forte quanto più è acuto il senso del disagio, della disperazione di chi non ha nulla. La combriccola, nonostante una di loro (l’infermiera) pensi che il bambino sia figlio di una ragazza stuprata in un campo profughi a Tripoli e poi giunta via mare in Europa, sente che in quella creatura abbandonata c’è qualcosa in più: è come un sogno in una notte eternamente buia, è il segno che una sorta di salvezza è ancora possibile.
Il neonato si fa simbolo, come era accaduto circa 2000 anni prima, dei profughi di ogni era in fuga dall’indifferenza, dagli ‘sgherri di Erode’ del nostro secolo. Chi lo incontra scopre un senso nuovo della vita, si sente ‘guarito’ nelle sofferenze, porta con sé il ricordo di quell’incontro come qualcosa di unico, di vero. A chi ha questa fortuna quasi gli sembra (come ai protagonisti del libro) di non poter più affrontare senza di lui il resto della ‘notte, della vita.