Ermal Meta si sente più vicino a Gattuso che a Messi. «Messi si nasce, Gattuso si diventa», sorride scapigliato via Zoom. «Ma l’italiano ha alzato una coppa del mondo, l’argentino no. La volontà batte il talento». E di volontà, determinazione e coraggio, termine che ripete spesso nelle sue canzoni, Ermal Meta ne ha avuto sin dalla tenera età. “Ermal ha 13 anni e non vuole morire”, canta nel brano Il destino universale, inserito nel nuovo album Tribù urbana, in uscita il 12 marzo e contenente Un milione di cose da dirti, la ballad con cui è in gara a Sanremo2021.
A 13 anni fuggì dall’Albania in cerca di un futuro nel nostro Paese. Al suo primo giorno di scuola, a Bari, la maestra gli chiese cosa avrebbe voluto fare da grande: «Voglio fare la rockstar» rispose. Risero tutti. Ermal Meta, 39 anni, quel sogno l’ha realizzato. Autore, produttore, polistrumentista, per ben otto volte ha già frequentato la riviera ligure, la prima volta nel 2006 con gli Ameba4, poi con la Fame di Camilla, due volte da autore, dal 2016 da solista. E nel 2018 lo ha anche vinto il Festival. In coppia con Fabrizio Moro, con il brano Non mi avete fatto niente. «Ma non torno da vincitore», tiene a precisare. «Vado a Sanremo perché all’Ariston c’è l’unico palco dove si suona e, per la prima volta, presento una ballad».
Anche Ermal Meta è tra le “vittime” del Covid. Il suo tour ha subìto due slittamenti e non sa ancora quando potrà essere ripreso. «In genere io scrivo stando sul palco», racconta. «Questa volta mi sono messo dalla parte del pubblico, nei panni di chi ascolta. Il lockdown, in questo senso, mi ha aiutato a concentrarmi meglio su quello che facevo. Penso di aver scritto canzoni da cantare a squarciagola, ora sono ansioso di verificare “live” se ho visto bene».
Sono undici gli inediti contenuti in Tribù urbana. Undici storie che compongono un puzzle che ritrae la società odierna. Storie semplici, scritte con un linguaggio da diario di scuola, suggerite da esperienze vissute. Storie in cui il tema dell’uguaglianza e del riscatto sono ricorrenti. Da Nina e Sara che trovano il coraggio di mostrare il loro amore a un mondo che «è avanti nell’inseguire i sogni, ma che è ancora al Medioevo per le ragioni che contano davvero», a Gli Invisibili, gli ultimi che diventano supereroi e che salveranno il mondo.
Al Festival, però, nonostante Un milione di cose da dirti, Ermal Meta non ha messaggi particolari da lanciare. «Porto una proposta squisitamente musicale», sottolinea. «Una canzone d’amore verticale, dalle atmosfere un po’ fiabesche, come nei nomi dei due innamorati». “Cuore a sonagli io, occhi di fanale tu”, canta.
Giovedì 4 marzo, nella serata delle cover si sottoporrà all’esame di Caruso. Quattro marzo, una data fatidica. Cinquant’anni fa, sullo stesso palco, il compianto Lucio Dalla presentava la canzone che inizialmente doveva essere intitolata Gesubambino. «Soltanto qualche giorno fa mi hanno fatto notare la coincidenza», si sbalordisce.
«Ho scelto la canzone che tutti mi hanno sconsigliato di fare. Cerco di andare controcorrente, anche contro quel consiglio che sembra saggio. Cerco di indossare i guanti di velluto e sfiorare qualcosa di intoccabile. Mi voglio misurare con questa canzone, non con Lucio Dalla. Voglio provare a battere questa punizione e di vedere se farò gol», ringhia abbassando i calzettoni come Gattuso. Per mantenere la napoletanità della canzone, Ermal Meta avrà accanto a sé la Napoli Mandolin Orchestra. «Soltanto quattro componenti, perché per le restrizioni legate alle misure di sicurezza anti-Covid non è stato possibile portare tutti e dodici i mandolini sul palco».
Non crede che l’assenza di pubblico all’Ariston sia un problema. «Anche perché, in passato, agli inizi dello spettacolo la gente è abbastanza attenta, ma dopo due ore si vedono in platea segnali di stanchezza», ride. «Sarà più difficile per i conduttori parlare per tre ore davanti alle sedie vuote. Noi cantanti dopo tre minuti e mezzo andiamo via».